Il mio amico Walter mi ha inviato questa foto da Cercivento, Carnia, a pochi chilometri dal confine con l’Austria e subito mi è venuto in mente uno splendido articolo di Alvise Fontanella apparso sul Gazzettino il 4 ottobre del 2014; e mi sembra giusto riproporlo in occasione del 4 novembre, giornata nella quale la grancassa tricolore retorica e patriottarda si fa particolarmente sentire.
Ettore Beggiato
Grande Guerra, la fucilazione dell’alpino Ortis
Lassù a Cercivento, in Carnia, neanche 700 anime, sta un cippo che della Grande Guerra dice la verità. Ed è forse per questo che lassù non si fanno vedere le alte autorità della Repubblica. Perché lassù a Cercivento, dietro il piccolo cimitero, sta l’unico monumento al mondo che onora un disertore.
Tra poco fanno cent’anni: l’alpino Ortis Silvio Gaetano, da Paluzza, venne fucilato proprio lì, dietro al piccolo cimitero, dopo un processo sommario celebrato nella chiesetta, dalla quale il parroco, sfidando i militari, aveva portato via il Santissimo. Con Silvio Gaetano Ortis caddero nella polvere di quel 1° luglio 1916 Corradazzi Giovanni Battista, da Forni di Sopra, Matiz Basilio, da Timau, e Massaro Angelo, da Maniago. Tutti alpini dell’8° Reggimento, 109.ma Compagnia. Tutti condannati a morte per rivolta e diserzione. E al disonore per l’eternità: decenni e decenni dopo, ai discendenti è ancora respinta la domanda di assunzione nei corpi statali, e quando, in anni recenti, la famiglia chiede di poter seppellire degnamente i resti di Silvio, le autorità militari proibiscono che suonino le campane e vietano la cerimonia ai non familiari. Ma quando il feretro si avvicina alla chiesa, ancora una volta un parroco di montagna sfida l’ordine ingiusto: tre rintocchi di campana accolgono come si deve la bara di Ortis.
Erano lassù, i ragazzi della 109.ma Compagnia. Quota 2000, sulle montagne di casa. Pochi parlavano l’italiano, ma tutti conoscevano bene il Cellon, la montagna lì davanti, l’immensa schiena nuda e scoperta sulla cui cima, a quota 2200, stavano le mitragliatrici austriache, a guardia del passo di Monte Croce Carnico. Nei loro paesi, lì sotto, pochi parlavano l’italiano e molti lavoravano in Austria. Quando dissero loro che l’Austria era il nemico, non capirono. Tuttavia alla patria obbedivano: Ortis s’era già meritato due medaglie al valore.
Disertore ed eroe: così Ortis salvò i suoi alpini
Ma quando alla Compagnia giunse l’ordine di attaccare le postazioni austriache in pieno giorno, uscendo allo scoperto per un lento e difficile tragitto sotto il tiro delle mitragliatrici, Ortis si fece portavoce dei suoi ragazzi e pronunciò il suo Signornò. Era un suicidio, Ortis lo ripetè al capitano: bastava attendere la notte, spiegò, e le nebbie che in quelle sere salivano ad abbracciare la montagna avrebbero protetto gli attaccanti.
Ma il capitano non parlava furlan. Lui veniva dalla Calabria e si chiamava Cioffi. E il suo mito era il Cadorna, il grande macellaio. E così Ortis e gli altri alpini furono tradotti giù, in paese, e fucilati «per dare l’esempio». La cima del Cellon fu espugnata da un’altra compagnia, ma l’attacco avvenne di notte, protetti dalle nebbie, proprio come suggerivano i disertori fucilati.
Il sangue della Grande Guerra, utile solo alla propaganda unitaria
Nella Grande Guerra furono mobilitati 5.900.000 italiani. Morirono in 650mila. Fu l’Italia ad attaccare l’Austria, benché Kaiser Franz Joseph avesse offerto al Re d’Italia Trento e Trieste in cambio della pace. «È un’inutile strage» fu il grido di papa Benedetto XV. Ma don Giuseppe Lozer, friulano di Budoia, parroco di Torre, che osò ripetere quel grido, fu processato e deportato. Nell’Italia di allora prevalse chi voleva la guerra, per conquistare le terre “irredente” col sangue che sarebbe poi diventato, con la propaganda sabauda, cemento dell’unità di un Paese mal conquistato dal regno di Piemonte.
Li chiamavano «attacchi Cadorna»: al grido «Savoia!» la truppa usciva allo scoperto, sotto il tiro nemico. Gli eroi, la bella morte, il mito dannunziano. Chi esitava, sparargli alle spalle, questo era l’ordine. Nelle 12 battaglie sull’Isonzo furono macellati a centinaia di migliaia: il fronte si spostò pochi metri. Senatori del Regno denunciarono «lo sciupìo di vite, la carne umana opposta ai mezzi meccanici, il regime di terrore, l’autocrazia fatua e superba, le fucilazioni senza processo». Quanto la truppa fosse d’accordo, lo dicono i numeri dei denunciati alla giustizia militare: 850mila soldati in quattro anni di guerra. I processi per renitenza alla leva sfiorarono il mezzo milione, quelli per diserzione furono 162mila, duemila quelli per passaggio al nemico. Le condanne a morte furono più di quattromila. E poi le esecuzioni sommarie, senza numeri certi.
L’Italia non chiede nemmeno scusa
Nel marzo 1990 il pronipote dell’alpino Ortis inoltrò alla Corte militare d’appello istanza di riabilitazione del suo parente, fucilato 74 anni prima, allegando documenti raccolti in un lavoro ventennale. La risposta, da Roma, fu sublime: «Istanza inammissibile, manca la firma dell’interessato». Ci riprovò il ministro della Difesa Ignazio La Russa nel 2010, ma la giustizia militare, 94 anni dopo i fatti, bastonò anche il ministro: «Le testimonianze non sono verbalizzate dall’autorità giudiziaria». I protagonisti devono risorgere dai morti per firmare il verbale.
Ma in Carnia sono testardi come i muli degli alpini. A Cercivento s’è costituito un comitato per la riabilitazione di Ortis e degli altri alpini. La Provincia di Udine indirizza un appello direttamente al presidente Napolitano. E chissà mai che nel centenario della fucilazione dei quattro eroi della Carnia, che disobbedirono a un ordine folle nel vero interesse del loro Paese, salvando da morte certa ed inutile la loro Compagnia, chissà che laggiù a Roma qualcuno non senta il dovere, tra le mille occasioni di memoria e di retorica sulla Prima guerra mondiale, di venire quassù a Cercivento a chiedere perdono a nome dell’Italia.