Nel corso dei secoli furono frequenti i contatti tra la città di Manfredonia e quella di Venezia. Non solo rapporti commerciali, ma anche scontri militari, come nel 1528 quando i sipontini respinsero l’assedio portato alla città dalle truppe franco-veneziane capitanate dal Lautrec.
Ciò che avvenne nell’inverno del 1694, invece, fu qualcosa di curioso, nonché sconosciuto, che coinvolse la città del Golfo; questa volta, in modo marginale, in un altro importante conflitto: la guerra di Morea.
Il 22 novembre i deputati alla Salute pubblica Cesare de Angelis e Tommaso Cessa, il reverendo Giovanni Pietro de Salvatore, il dottore fisico Bartolomeo Raimondo e i medici chirurghi Gaetano e Domenico Fiore, tutti della città di Manfredonia, su disposizione del Duca di Laurito, Preside e Governatore delle Armi della Provincia di Lucera e del Contado del Molise (per l’occasione presente a Manfredonia), con l’assistenza del Giudice della Vicaria e Capo di Rota della Provincia, Raimondo Baldares, insieme al sindaco, al castellano, al governatore e agli eletti della città, si recarono presso la taverna ubicata fuori le mura della città sipontina.
Il vascello veneziano con infermi a bordo
Lì erano rinchiusi alcuni soldati sbarcati dal vascello veneziano denominato “Il Redentor del Mondo”, comandato dal capitano veneziano Francesco Bersatich (nei documenti è citato anche come Francesco Bersetti). Questi uomini, nel numero di 127, furono ispezionati e visitati dai medici, intervenuti per scongiurare la presenza di un morbo contagioso.
Fortunatamente non fu trovata traccia di alcuna epidemia, ma dodici marinai erano febbricitanti o presentavano delle gravi ferite. Un soldato, Marc’Antonio Tonno di Parma (28 anni), morto il giorno prima, fu sepolto lì vicino. La taverna, però, non poteva custodirli tutti, cosicché, anche per motivi di sicurezza, il Duca di Laurito ordinò che 40 di essi fossero spostati in una casa “herema” fuori dall’abitato, lasciando gli altri 87 (tra cui i feriti e gli ammalati) nella taverna. Sia la casa sia la taverna furono sottoposte alla sorveglianza delle guardie e all’assistenza dei deputati alla Salute.
Il 24 novembre 1694 i deputati alla Salute, il reverendo de Salvatore e i medici, su ordine di Onofrio Milano (segretario della Provincia di Lucera), si recarono nuovamente presso la taverna, con il governatore della città di Manfredonia, il sindaco e gli eletti, per constatare la morte di un altro soldato della Serenissima. Si trattava di Lorenzo Fanflé, alias Gianforlino (15 anni), originario di Genova, il quale non presentava alcun segno di morbo infettivo. Fu seppellito nei pressi della taverna.
I responsabili della Salute pubblica, dopo due giorni, tornarono sul posto per accertare la morte di un altro mercenario: Domenico Cavaro, originario di Bologna (50 anni). Questi venne sepolto nella “terra rossa” presso la taverna.
In quarantena nella taverna fuori le mura
Il giorno successivo, il sergente Pietro Blanco, originario della Borgogna, e Giorgio Bertolino di Milano, soldati del vascello veneto, riferirono, alla presenza del governatore, del sindaco e degli eletti, nonché del magnifico Onofrio Milano, ciò che era accaduto su quella nave. Un certo Ans Bren Barbetta, calvinista e condottiero, per far parte della spedizione era stato assoldato dalla Repubblica di Venezia al prezzo di 21 ducati. Costui, per ottenere ancora denaro, aveva fatto reclutare altri soldati, tutti malati e presi dall’ospedale di Venezia. Prima ne aveva fatti arruolare undici e successivamente altri diciassette.
Proprio detti soldati infermi erano il motivo di questa messa in quarantena nella taverna di Manfredonia e ancora viene riferito che il condottiero Barbetta era stato ammazzato durante alcune scaramucce tra soldati a bordo de “Il Redentor del Mondo”.
In quel medesimo giorno si registrò la morte di Domenico Boscili di Bologna (24 anni), il quale fu tumulato nella “terra rossa” nei pressi della taverna.
Continuarono, col passare dei giorni, i decessi: il 30 novembre morì Girardo di Girardo della città di Cremona (60 anni); il giorno dopo, morirono Ignazio Musso (22 anni) e Ludovico Pistan (22 anni), entrambi di Bologna. Tutti e tre inumati nella “terra rossa”.
Il 3 dicembre perì Angelo Michele Lorenzo di Bologna (29 anni), figlio di un altro soldato del vascello, Antonio Lorenzo.
Lo stesso giorno il notaio Leoncarlo Mazzone, il giudice Onofrio Mazzone e alcuni testimoni, con un battello, si recarono assieme al capitano Bersetti, a due miglia dalla costa, dove si trovava ancorato il vascello “Il Redentor del Mondo”. Avvicinatisi alla poppa della nave, scorsero un gentiluomo, il quale si presentò come Filippo Donado, nobile veneziano, nonché eletto Provveditore generale del Regno di Morea.
La dichiarazione del Provveditore di Morea
Questi raccontò ai sipontini che la sua nave era partita il 19 ottobre da Venezia, con un convoglio di altri dodici vascelli della Serenissima, diretto dall’Eccellentissimo Girolamo, Capitano delle Navi (nel documento è omesso il cognome, ma è da ipotizzare che si tratti di Girolamo Dolfin). Una burrasca, cogliendoli di sorpresa, li aveva divisi. Confermò che il suo vascello non aveva toccato altro porto se non quello sipontino e che a bordo si godeva di ottima salute. Per ufficializzare il tutto il Provveditore della Morea fece mettere per iscritto dal suo cancelliere, Simone Petronio, quanto dichiarato, controfirmando e timbrando con il sigillo della Repubblica di Venezia. La lettera fu consegnata nelle mani del notaio sipontino.
Nel frattempo continuarono le morti: il milanese Giacomo Brivì (26 anni) e Giuseppe di Fraula, parmense (19 anni), entrambi il 4 dicembre, sepolti nel fosso presso la taverna. Si provvide al controllo “a carne ignude” del capitano Francesco Bersetti, che non presentava segni di morbo.
Lo stesso giorno, i deputati alla Salute, il parroco e i medici effettuarono altri controlli sanitari ai soldati che erano sbarcati dal vascello veneziano il giorno 18 novembre. Dalle verifiche, anche questa volta, risultarono quasi tutti sani, tranne alcuni, che comunque, non presentavano segni di epidemia contagiosa, bensì di febbre o altre infermità. Tuttavia non si riuscì a curarli “per la proibitione del comercio” e non si poté fornire i medicamenti opportuni, né i letti né il vitto. Pertanto alcuni morirono e altri restarono in pericolo di vita. Quelli che perirono furono sottoposti nuovamente a controlli sanitari senza riscontrarsi sui loro corpi alcun “male contaggioso”.
La fine della quarantena: i sani riprendono il mare
Sempre quel 4 dicembre la commissione si portò nella casa “herema” dove dimoravano gli altri soldati. Sottoposti a visita medica furono trovati tutti sani. Alfine, Cesare de Angelis, Tommaso Cessa, deputati alla Salute, assicurarono che tutti i soldati del vascello “si possono ammettere alla libera, e sicura prattica”, quindi riprendere il mare. Invero, gli infermi rimasero a terra, in quarantena. Infatti, Giovanni di Lai (21 anni), della città di Parma, Luì Rù della Contè (19 anni) e Giovanni Battista Iacone (35 anni), di Bologna, morirono rispettivamente il 6, 7 e 25 dicembre e furono seppelliti tutti nella “Terra Santa” nei pressi della chiesa Cattedrale, poiché non era stato rinvenuto su loro alcun morbo epidemico. In merito al soldato Iacone, sul “Libro dei morti” (parrocchia S. Lorenzo Maiorano), si legge che i soldati si erano ribellati contro di lui, durante alcune liti a bordo.
In conclusione, dall’analisi sopra riportata, emergono delle interessanti osservazioni: innanzitutto, per i mercenari non c’erano limiti di età; si passa dall’età giovanile di 15 anni all’età matura di 60 anni. E ancora, notevole è la differenziazione di sepoltura tra la “Terra rossa”, extra moenia e la “Terra Santa”, intra moenia (cimitero voluto dall’Orsini).
Con ogni probabilità il vascello “Il Redentor del Mondo”, dopo aver levato l’àncora dalle acque sipontine, raggiunse la Morea per sbarcare il nobile veneziano Filippo Donado, di cui si è detto.
Guerra di Morea, la Serenissima sconfigge i Turchi
Dal 1684 al 1699, la Serenissima Repubblica di Venezia fu impegnata nella riconquista di alcuni suoi vecchi possedimenti in Dalmazia e Grecia. L’ultima fase militare è conosciuta come “Guerra di Morea”.
Le ostilità presero il via da uno scontro avvenuto nei pressi di Vienna, nel 1683, tra l’Alleanza Cristiana e l’Impero Turco, che vide la vittoria della “Lega Santa”. Il “Leone di S. Marco” approfittò della sonora sconfitta subita dal Turco per riconquistare la Morea (l’attuale Peloponneso). Tra gli alfieri della Serenissima merita una menzione speciale Francesco Morosini, prima capitano generale, poi doge e nuovamente capitano generale all’età di 75 anni, il quale portò a compimento la conquista della Morea in pochi anni dall’inizio del conflitto. Un’altra personalità di spicco è quella di Girolamo Dolfin, che inseguì la flotta ottomana fin dentro lo stretto dei Dardanelli dove le inflisse numerose perdite, imponendo anche un blocco dello stretto. Nel 1699 terminò la guerra con la stipula del trattato di Carlowitz.
FONTI:
Archivio di Stato di Foggia – sez. Lucera, Atti notarili;
Archivio Parrocchia S. Lorenzo di Manfredonia, Libro dei Morti XI.
(Per gentile concessione dell’Autore, si è riprodotto qui l’articolo di Giacomo Telera pubblicato sul sito del Centro Studi Storico Archeologici del Gargano, www.centrostudidelgargano.it )