Da più di mille anni è la festa di San Marco, patrono della Serenissima Repubblica di Venezia. Da qualche decennio è anche, per l’Italia, la cosiddetta festa della liberazione. Ma per noi veneziani, il 25 Aprile resta sempre la festa del bòcolo – il bocciuolo di rosa rossa – e la gentile usanza va diffondendosi, con l’esodo dei veneziani dalla città, anche in terraferma. Però la diffusione dell’usanza, come sempre accade, la banalizza: il bòcolo è diventato un omaggio d’amore che il marito fa alla moglie, il moroso alla morosa.
Un bòcolo per tutte le donne
Nell’originaria tradizione veneziana, invece, il bòcolo non si deve soltanto all’innamorata, ma a tutte le donne, che ci rendono bella la vita. È un omaggio all’elemento femminile: tutte le donne hanno diritto al bòcolo.
Mio padre non si limitava a portarlo a mia madre: lo offriva pure alle segretarie, in ufficio, o alle clienti che incontrava in quel giorno, e lo portava anche a mia sorella bambina, fino a che la bambina, crescendo, non trovò altri che s’incaricassero della bisogna. Quando la nonna rimase vedova, papà non dimenticò mai di fare, il 25 Aprile, le veci del nonno. E ricordo che, avendo invitato una coppia di amici a cena un 25 Aprile, accolse gli ospiti con un bòcolo per la signora, e il marito di lei si presentò con un bòcolo per mia madre.
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Negli uffici, i colleghi si tassavano per far trovare un bòcolo sul tavolo alle colleghe. Nelle scuole, i ragazzi si mettevano in cooperativa per non farlo mancare alle compagne di scuola. Nelle case di riposo, negli ospedali, si provvedeva ad offrirlo alle signore sole. Il 25 Aprile non si deve vedere in Venezia una donna senza il bòcolo.
Il miracolo del bòcolo a San Marco
Delle molte leggende sull’origine dell’usanza del bòcolo, una mi piace sopra tutte le altre, quella che mi raccontava mio nonno Alvise, perché a differenza di quelle che la riferiscono a banali storie d’amore, questa, che racconta niente di meno che di un miracolo, è la più fedele alla tradizione, la sola a spiegare perché a Venezia, il dì di San Marco, tutte le donne debbano avere il bòcolo.
Ho deciso di metterla per iscritto, perché così mi chiese di fare l’amico Bepin Segato, patriota veneto, vittima della repressione italiana, e divulgatore appassionato delle Belle Costumanze venete. Eccola qui.
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Un giorno, ai tempi della Serenissima, il Doge uscì in pompa magna, sulla nave di rappresentanza detta Bucintoro, per andare ad accogliere in mare il nuovo ambasciatore di Francia. A bordo erano rappresentate tutte le famiglie patrizie della Veneta Repubblica.
E c’era anche Maria, la bellissima figlia di uno degli uomini più in vista del Senato Veneto, che proprio quel giorno, compiuti i 17 anni debuttava in società. E c’era anche Alvise, un giovane patrizio già ben avviato alla carriera politica, che con Maria aveva già scambiato troppi teneri sguardi. Davanti alla bocca di porto, quando il Bucintoro abbordò il vascello francese tutto imbandierato e l’ambasciatore di Francia vi salì, toccò proprio alla giovanissima Maria infilare al dito dell’ambasciatore, in segno di benvenuto, il tradizionale anello d’oro del Doge.
Maria giovane sposa del vecchio ambasciatore
Ella non lo sapeva ancora, ma non sarebbero trascorsi molti giorni che un altro anello avrebbe scambiato con l’ambasciatore di Francia. Il gentiluomo, benché assai avanti con gli anni, era scapolo: e non appena vide Maria accoglierlo con tanta grazia, se ne invaghí. La sera stessa, a colloquio col Doge, trovò modo di dirglielo.
Il mattino dopo, prima ancora di svegliarsi, Maria era fidanzata con l’ambasciatore. All’alba il Doge aveva fatto convocare il padre della giovane, e lo aveva informato della preziosa possibilità che la bellezza di sua figlia offriva alla Repubblica, di assicurarsi la dedizione dell’ambasciatore di Francia, persona di grande influenza presso la Corte di Parigi.
Il patrizio veneziano, uomo di Stato, per decenni Bailo della Serenissima a Costantinopoli, rispose al Doge che sua figlia Maria era a disposizione della Repubblica. Da padre attento qual era, non gli era sfuggito che tra Maria e il giovane Alvise correva qualcosa di più d’una simpatia. Ma la ragion di Stato aveva deciso altrimenti.
Il peso del destino
Quando Maria conobbe che il proprio destino era d’andare sposa ad un vecchio, non pianse né si disperò. Tanti altri destini di famiglia aveva visto sacrificarsi alle necessità dello Stato. Maria, dunque, compí quanto la Veneta Repubblica le chiedeva, e visse da allora sposa fedele del vecchio ambasciatore, che l’amava e non le faceva mancare nulla. Egli era informato dell’antica simpatia tra il patrizio Alvise e la sua giovane moglie. Ma i servitori francesi che le metteva alle calcagna la testimoniavano fedelissima. In realtà i cuori dei due giovani non erano cambiati, ed entrambi sentivano il peso del loro destino. Ma lo accettavano in silenzio. Il sacrificio, la Repubblica l’aveva chiesto ad entrambi. E nessuno dei due avrebbe tradito.
Il 25 aprile di quell’anno, festa di San Marco, Maria era scesa come al solito in Basilica, la mattina di buon’ora. Inginocchiata sul tappeto, pregava. Non immaginava che quel giorno, come molti altri giorni, Alvise era anche lui in Basilica. Egli sapeva che lei vi si recava a pregare tutte le mattine. E talvolta, di nascosto, veniva anche lui. Si contentava di guardarla da lontano, non visto. Poi se ne usciva da una delle molte porte della Basilica d’oro, senza che mai la donna né i servitori che l’attendevano fuori di chiesa si fossero accorti del silenzioso omaggio.
La rosa rossa in Basilica
Ma quel giorno era la festa di San Marco, sopra le cupole d’oro brillava lo splendido sole, intorno si respirava primavera e Alvise si dovette sentire più baldanzoso del solito. Si avvicinò a Maria, senza dire una parola depose una rosa rossa sul tappeto accanto a lei e uscì dalla Basilica. Maria lo vide e non disse una parola, ma rimase più a lungo del solito inginocchiata a pregare. Si attardò tanto che i servitori francesi entrarono e la videro nell’atto di appuntarsi la rosa al petto. Pochi minuti dopo, avvertito da uno di loro, l’ambasciatore di Francia si faceva annunziare al Doge.
– Un convegno in Basilica, vi dico! Una rosa rossa, un pegno d’amore, nel giorno del patrono della Repubblica! Mi rimetto a voi. Ma in Francia…
– Venezia sarà più severa della Francia! – il Doge rispose.
E chiamò la sua scorta personale.
La donna con la rosa rossa
– In piazza c’è una donna appena uscita dalla Basilica. La riconoscerete dalla rosa rossa che ha con sé. Portatemela qui.
La guardia del Doge si avvicinava alla Basilica quando Maria ne uscì. Avvolta nello scialle di pizzo nero, il fiore rosso le splendeva in seno. Gli uomini la circondarono, imbarazzati. Lei riconobbe la guardia del Doge.
– Abbiamo l’ordine di condurvi da Sua Serenità – il capitano della guardia disse.
Ma proprio in quel momento, mentre gli occhi del capitano evitavano di incontrare lo sguardo di Maria, scorsero un’altra donna uscire dalla Basilica. Era nobilmente vestita, e teneva in mano una rosa rossa. Anche gli uomini della scorta dogale se ne avvidero. Due di essi lasciarono Maria, fermarono l’altra donna e guardarono il capitano con aria interrogativa.
– Dal Doge, tutt’e due! – egli comandò.
Ma non avevano fatto il primo passo, quand’ecco spuntare una terza donna, che procedeva a fianco del marito. Anche lei sfoggiava un fiore rosso sullo scialle. Le guardie accorsero per arrestarla, venne gente, si fece crocchio. E tra la folla, una, due, dieci donne: ognuna reggeva, per il lungo gambo, un uguale, splendente bocciuolo rosso. Le guardie non capivano più nulla. Anche le donne guardavano stupefatte il fiore che d’incanto era spuntato tra le loro mani.
– Il Doge, il Doge!
Una folla di donne con il bòcolo
Al grido, la gente guardò verso Palazzo Ducale. Il Doge e l’ambasciatore di Francia s’erano affacciati dalla loggia, richiamati dal rumoreggiare della folla, e guardavano giù verso la piazza. Maria stava lì, ritta in piedi, reggendo immobile la sua rosa rossa. I soldati della guardia non la trattenevano più. La folla intorno era ormai numerosa. E tra la folla, vestite a festa per il giorno di San Marco, dieci, cento donne veneziane di ogni età, sole o accompagnate, nobili o popolane, guardavano verso il balcone del palazzo. E tutte reggevano con la mano, per il lungo gambo, un rosso bocciuolo di rosa.
Così andarono le cose quel 25 aprile in Piazza San Marco. Naturalmente il vecchio ambasciatore si scusò pubblicamente con la moglie e i due vissero, felici e contenti come possono esserlo gli uomini, cioè almeno sereni tra il bene e il male della vita, per il tempo non lungo che al vecchio nobiluomo rimase da vivere. E dopo la morte del marito, la sua ancor giovane vedova si risposò, e non occorre dire con chi.
La Dogaressa e le rose rosse
L’anno dopo, il suo Alvise fu eletto Doge. E il 25 Aprile, giorno di San Marco, a mezzogiorno, mentre le nove campane del Campanile suonavano nel festoso Plenum (CLICCA QUI per ascoltarlo, è una meraviglia…) , Alvise e la Dogaressa sfilarono in Piazza in processione solenne, com’era usanza. Maria aveva al petto la sua rosa rossa, e tutte le donne in Piazza San Marco ne portavano una.
Questa, che vi ho raccontato fedelmente come me la raccontò mio nonno Alvise tanti anni fa, è probabilmente una leggenda. Però per aver vissuto tanti 25 d’Aprile in Venezia, posso assicurarvi che gli uomini, ricchi o poveri, sposati o soli, innamorati o no, tutti ogni anno infallibilmente curano che alle donne della loro vita, moglie, madre, sorella, figlia, morosa o collega d’ufficio, e persino alla suocera, non manchi quel bocciuolo di rosa rossa che tutte le veneziane han da portare nel giorno di San Marco, per salvare l’onore della moglie di un Doge.