Venezia, i cantieri del Mose sono fermi. La Basilica di San Marco si sfarina, le antichissime pietre si sfregolano sotto il peso delle colonne e Carlo Alberto Tesserin, primo Procuratore di San Marco, rilascia al Tg regionale della Rai un’intervista con le lacrime agli occhi (per vederla CLICCA QUI) in cui avverte: “Così la distruggiamo, la Basilica! Che si venga a vedere cosa sta succedendo sui marmi”.
Lo diciamo anche noi con le lacrime agli occhi: l’inchiesta e il processo sulle tangenti del Mose avranno anche castigato colpevoli, interrotto flussi di denaro illeciti, avranno anche fatto pulizia, ma per la salvaguardia reale e materiale di Venezia e della sua Laguna, per la salute delle pietre della città e dei suoi monumenti unici al mondo, ebbene per Venezia era meglio l’epoca delle tangenti.
Si finanzia solo l’apri e chiudi delle paratoie
Nell’era illibata del Mose post-processi, nell’era dorata del Pnrr, non ci sono più soldi, non c’è quella speciale attenzione legislativa e regolamentare, per la salvaguardia di Venezia.
Si finanzia, col contagocce, con mesi di ritardo, soltanto l’apri e chiudi delle già arrugginite paratoie mobili, per evitare l’indignazione mondiale contro l’Italia che farebbe seguito ad una nuova grande acqua alta sopra la città più amata al mondo.
La salvaguardia ha i cantieri fermi
Ma i lavori cosiddetti complementari, i preziosi interventi di salvaguardia sulle insulae della città e sui canali lagunari, per quelli i soldi non ci sono più stati, i cantieri sono fermi nonostante gli accordi recentissimi con le imprese creditrici, le intese per riaprirli restano sulla carta, inchiodati a iter burocratici insuperabili.
L’abbandono in cui versa la zona preziosissima tra le preziosissime, l’area di San Marco e della Basilica d’oro, diventa il simbolo tragico di questo fallimento.
Danni per 50 milioni di euro
Carlo Alberto Tesserin, nell’intervista alla Rai, fa il conto dei danni che l’ignavia italiana ha procurato alla Basilica: “Almeno 50 milioni di euro, e chi li ha?”.
Eppure per decenni il progetto Mose è stato finanziato a colpi di miliardi di euro all’anno, direttamente da Palazzo Chigi, con procedura speciale che fu giudicata ammissibile solo perché era in gioco la salvaguardia di Venezia.
Basta tangenti, basta denaro?
Un fiume di denaro, ogni anno, veniva da Roma assicurato al Mose, cioè alle paratoie e ai lavori complementari in Venezia insulare, in Chioggia e nella Laguna. Dopo le inchieste e i processi, di questo fiume di denaro si è vista soltanto l’ombra.
I cantieri sono fermi, gli operai attendono stipendi arretrati, le imprese sono in credito per decine di milioni di euro, sono costrette a sottoscrivere accordi sempre più al ribasso pur di ottenere qualcosa, ma la burocrazia statale blocca comunque i cantieri e ogni giorno che passa i costi aumentano e si mangiano i futuri incassi.
Ora si accorgono di quanto costa il Mose
Curioso, no? Adesso che tutto è in regola, adesso che nessuno s’ingrassa con le tangenti, il fiume di denaro si è seccato, come se fossero state le tangenti, e non la salvaguardia di Venezia, il vero motivo che alimentava quel fiume. Adesso che le tangenti non ci sono più, non c’è neppure il denaro.
Improvvisamente i governi italiani si accorgono di quanto costasse il Mose. E l’ultimo esecutivo Conte pretendeva persino, dopo che tutto era stato deciso a Roma per decenni, dalla scelta dei progetti a quella delle grandi aziende esecutrici dell’opera immane, di scaricarne adesso i costi stellari di completamento e manutenzione sulla città di Venezia e sulla Regione.
La storiella del sindaco…
Si raccontava a Venezia una storiella che riguardava uno dei grandi sindaci di Venezia, il democristiano Giovanni Favaretto Fisca. Un sindaco “del fare”, che completò la Tangenziale di Mestre, promosse l’autostrada Serenissima e l’aeroporto Marco Polo, affidò a Le Corbusier il progetto dell’ospedale.
Una volta, dopo un infuocato Consiglio comunale, un consigliere insinuò che il sindaco e il suo partito prendessero qualche bustarella da tutto questo fervore di opere pubbliche. “Vede – replicò Favaretto Fisca senza scomporsi – in politica c’è chi forse prende bustarelle ma fa le opere, e c’è chi le opere non le fa”.
Niente tangenti, niente opere?
Ecco, non vorremmo che il Mose finisse così. Niente tangenti, ma anche niente opere. Perché allora, sarebbe giusto chiedersi se non sia preferibile una gestione magari non illibata ma efficiente, che le opere pubbliche le progetta, le realizza, e ci fa pure la manutenzione, piuttosto che una gestione immacolata che però le opere non riesce a farle, non le porta a termine o le abbandona al loro destino.
O le lascia impegolate nelle sabbie mobili della burocrazia italiana e di regole e norme italiane che non riescono neppure a permettere di pagare le aziende che le opere le hanno realizzate, per consentire loro di riattivare i cantieri.
La Giustizia doveva fare il suo dovere
La Giustizia, naturalmente, doveva fare il suo dovere, e speriamo che l’abbia fatto bene e completamente, anche se qualche dubbio nel fondo del cuore ci resta, perché non si spiega come le tangenti interessassero quasi soltanto la politica veneta di allora e i funzionari e imprenditori a quella vicini, e non ci fosse nulla o quasi per il livello politico e di alta burocrazia nazionale e romano, che era quello che decideva ogni anno con quanti miliardi foraggiare il Mose.
Da che mondo è mondo, le tangenti si pagano soprattutto a chi decide, a chi ha il potere di stanziare i soldi, non solo agli anelli periferici della catena decisionale.
La gestione politica del dopo-inchieste
Ma c’è stata anche, negli anni scorsi, una dissennata gestione politica centralizzata, italiana e romana, del dopo-inchieste. Una gestione puritana, figlia di una necessità di mera comunicazione: per esibire la propria estraneità davanti ai cittadini indignati per quanto quelle inchieste venivano scoperchiando, per mostrare al mondo la volontà di far piazza pulita di tutto il marcio, il governo ha buttato il bimbo con l’acqua sporca.
Ha congelato flussi di denaro, ha cancellato Enti storici, ha bloccato pagamenti dovuti per opere già realizzate, in nome dell’anti-corruzione ha reso impossibile per mesi e anni la regolare prosecuzione delle opere in corso, la cui natura speciale ed essenziale non era certo stata smentita dalle inchieste.
Magistrato alle Acque, il delitto culturale di Renzi
Il governo di Matteo Renzi, per mostrare d’aver fatto pulizia radicale, non si è fermato neppure davanti al delitto culturale. Perché aver soppresso il Magistrato alle Acque è stato un vero delitto culturale.
Due personalità di vertice coinvolte nello scandalo del Mose non dovevano costituire un pretesto per sopprimere una istituzione veneta dal secolare e glorioso passato. Si doveva lasciarlo in vita, il Magistrato alle Acque, com’era e dov’era eventualmente correggendo qualche norma per evitare l’identità tra controllato e controllore.
La secolare storia del Magistrato alle Acque
Il Magistrato alle Acque, che ha sede a Venezia, ai piedi del ponte di Rialto, nel Palazzo dei Dieci Savi, una delle più alte magistrature della Serenissima dopo il Doge, è in realtà un complesso di istituzioni che risalgono alla Veneta Repubblica, e che sono operanti dal 1501.
Tutto ciò che modificava il regime idraulico, da una cavana in Laguna fino a un mulino sull’Adda alle porte di Milano, o una pila da riso nel Veronese, o la regimazione di un torrente in Friuli, doveva essere autorizzato e poi controllato da Essecutori, Savi, Provveditori e Collegio del Magistrato alle Acque.
Le grandi opere del Magistrato alle Acque
Opere fondamentali sono state realizzate da questa grande Magistratura veneziana: il dirottamento del Sile, del Piave, del Brenta, del Bacchiglione fuori della Laguna, i murazzi al Lido e a Pellestrina, l’allontanamento da Chioggia di uno dei rami del Po, lo scavo della sterminata, capillare rete di canali che da Venezia permetteva di servire tutte le principali città della Repubblica.
Il volto del Veneto e del Friuli come lo vediamo oggi, è stato plasmato dal Magistrato alle Acque, dai suoi ingegneri e reggitori, nel corso di secoli di buongoverno della Serenissima.
Renzi lo abolisce, Draghi lo fa risorgere
Il Magistrato alle Acque fu – anche questo! – abolito dal devastatore Napoleone. Fu subito saggiamente ripristinato dall’Impero degli Asburgo, e infine cancellato dal Regno d’Italia, il quale però se ne pentì e nel 1907 lo istituì nuovamente, con competenza “sulle province venete (cioè su Veneto e Friuli, ndr) e su Mantova”.
Nel 2014, fu soppresso da Matteo Renzi, e infine fatto risorgere nel 2021 dal governo di Mario Draghi, con provvedimenti tuttora in corso di attuazione. Draghi benché nato a Roma, è mezzo veneto: lo sa la quattrocentesca villa paterna Badoer-Draghi in Riviera del Brenta, nella quale il futuro governatore della Bce passava le vacanze, e dove conobbe la moglie, nobildonna veneta dell’antica famiglia Cappello.
Mose, soldi ma anche regole agili
Mario Draghi ha assicurato la consistente ripresa dei finanziamenti, sia per le opere complementari che per la manutenzione e gestione del sistema di paratoie mobili del Mose. Si parla di mezzo miliardo di euro.
Ma il problema non sono soltanto i soldi. Servono anche norme che diano alle imprese certezza di venir pagate, servono controlli della magistratura contabile che non blocchino i lavori per mesi e anni, servono regole agili, pragmatiche che misurino la loro bontà non solo sul rispetto dei criteri anti-corruzione e anti-sprechi, ma sulla effettiva, immediata e continuativa riapertura dei cantieri.