2 Aprile 2025
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“Il senno di poi”, l’unità d’Italia 150 anni dopo: un disastro per la Venezia

Il manifesto per un Risorgimento più vero

Alla fine del 2009 un gruppo di studiosi e ricercatori di storia risorgimentale ha elaborato un manifesto per un Risorgimento più vero e meno retorico:

“Il centocinquantesimo dell’unità rischia di ridursi a  una sbrodolata di retorica, a un’altra occasione per ribadire luoghi comuni ma anche omissioni e menzogne storiche.

Rischia di essere una parata di cerimonie ufficiali, frequentate da azzimati spettatori pagati e da scolaresche cooptate; un diluvio  di discorsi politicamente corretti; la ripetizione di patriottici mantra.

Le verità ufficiali

Noi vorremmo invece che la ricorrenza possa essere occasione per una analisi serena degli avvenimenti storici, per affrontare silenzi, reticenze e veri e propri occultamenti di prove e di cadaveri.

I tempi sono maturi per farlo. Un secolo e mezzo di tempo dovrebbe aver sopito anche le passioni più accese, sicuramente quelle in buona fede. Vorremmo che si facesse finalmente anche da noi quello che – ad esempio – in America si è cominciato a fare appena qualche anno dopo la fine dalla loro guerra civile: esaminare gli avvenimenti e i ruoli con obiettività ed onestà.

Purtroppo invece le interpretazioni, le giustificazioni, le verità “ufficiali” continuano a viziare la versione corrente della nostra storia.

Giustizia per vincitori e vinti

Noi chiediamo che le risorse impegnate in inutili e vacue cerimonie, in comitati paludati, vengano devolute in iniziative di chiarezza, di confronto, di divulgazione di verità non più coperte dalla ragion di Stato.

Noi chiediamo che sia fatta giustizia sui vincitori e sui vinti, e su tutti quelli che sono stati presi in mezzo.”

Gilberto Oneto: “Il senno di poi. L’unità d’Italia vista 150 anni dopo”

L’appello fu ripreso da numerose testate ed emittenti televisive e da quel documento Gilberto Oneto trasse l’ispirazione per elaborare un progetto che sfociò nella stampa di un volume, “Il senno di poi. L’unità d’Italia vista 150 anni dopo” (Il Cerchio editore) con i seguenti apporti:

Giorgio Garbolino Boot,  Piemont, la “Patria cita”;

Franco Bampi, La Liguria “italiana”;

Paolo Gulisano, Il senno di poi in Lombardia;

Ettore Beggiato, Il Veneto e il plebiscito;

Elena Bianchini Braglia, “Poveri bambini, quali guai vi preparano”;

Sergio Salvi, Né Nord, né Sud né Centro: il caso toscano;

Gigi Di Fiore, L’unità d’Italia e la questione meridionale. La guerra civile del nord al sud;

Francesco Mario Agnoli, Il quadro generale;

Romano Bracalini, 1861. Due Italie che si uniscono ma non si amano;

Adolfo Morganti, Risorgimento Italiano e sguardo europeo;

Gilberto Oneto, un bilancio sconsolante

L’annessione del Veneto

Ecco il mio intervento:

Not in my name” potrebbe essere lo slogan che ogni veneto cosciente della propria identità fa proprio in occasione delle celebrazioni per i centocinquant’anni della cosiddetta unità d’Italia (1861-2011).

Noi Veneti possiamo ben dire, noi non c’eravamo

Il plebiscito-truffa

La nostra regione fu annessa al Regno d’Italia il 21-22 ottobre 1866 attraverso un plebiscito-truffa  cinque anni quindi dopo  il “fatal” 17 marzo 1861, giorno della proclamazione del Regno d’Italia.

Il plebiscito che sancì l’annessione del Veneto al Regno sabaudo   viene liquidato dai  libri di storia in poche battute visto che la storiografia ufficiale sostiene che “tutto si svolse con mirabile ordine e fra universali manifestazioni di gioia” (1).

Pochi sanno che in realtà fu una colossale truffa, la prima di una serie infinita di truffe perpetrate dall’Italia ai danni dei Veneti.

Veneti al voto a giochi fatti

Il nostro Veneto in realtà era già stato “passato” dalla Francia all’Italia in una stanza dell’Hotel Europa lungo il Canal Grande, il 19 ottobre: i Veneti andarono a votare  quando i giochi erano già stati fatti.

Il generale francese Leboeuf consegnò il Veneto a tre notabili: il conte Luigi Michiel, veneziano, Edoardo De Betta, veronese, Achille Emi-Kelder, mantovano.

Questi, a loro volta, lo “deposero” nelle mani del commissario del Re conte Genova Thaon di Revel e il giorno dopo sulla “Gazzetta di Venezia” apparve un anonimo trafiletto:

“Questa mattina in una camera dell’albergo d’Europa si è fatta la cessione del Veneto“.

Il diritto all’autodeterminazione del popolo veneto

Riepilogando: un trattato internazionale (fra Austria e Prussia, 23 agosto a Praga) prevede il passaggio del Veneto alla  Francia che poi lo consegnerà ai Savoja; nel trattato di pace di Vienna fra l’Italia e l’Austria del 3 ottobre si parla testualmente di  “sotto riserva del consenso delle popolazioni debitamente consultate“:un riconoscimento internazionale al diritto all’autodeterminazione del popolo veneto che in quel momento ha la sovranità sul suo territorio.

Metternich e l’indipendenza della Venezia

Teniamo anche presente che c’è stata l’ipotesi, come scrisse l’ambasciatore asburgico a Parigi, Klemens von Metternich, al suo ministro degli esteri Mensdorff-Pouilly il 3.8.1866, di arrivare a “l’indipendenza della Venezia sotto un governo autonomo com’era la vecchia Repubblica“.

Il plebiscito avrebbe dovuto svolgersi sotto il controllo di una commissione di tre membri che “determinerà, in accordo con le autorità municipali, il modo e l’epoca del plebiscito, che avrà luogo liberamente, col suffragio universale e nel più breve tempo possibile”. Così era stato concertato dall’ambasciatore d’Italia a Parigi Costantino Nigra con il governo francese, che doveva svolgere il ruolo di garante internazionale sancito anche dal trattato di pace fra Prussia e Austria..

La protesta del generale Le Boeuf

Invece i francesi rinunciano ben presto alla loro dimensione, anche per le pressioni del presidente del consiglio Bettino Ricasoli, e così uno sconsolato generale Le Boeuf scrive a La Valette il 15 settembre:

“Nutre inquietudini per l’ordine pubblico: le municipalità fanno entrare le truppe italiane o si intendono col re, che governa una gran parte: egli deve lasciar fare. Il plebiscito non si potrà fare che col re e col governo”.

Altro che controlli, altro che garanzie internazionali!

Lo stesso generale Le Boeuf annunciava il 18 ottobre a Napoleone III che ha protestato contro il plebiscito decretato dal re d’Italia: Napoleone gli dice di lasciar perdere.

La consegna del Veneto ai Savoja

La Francia praticamente rinuncia al proprio ruolo di garante internazionale e consegna il Veneto ai Savoja.

Una quasi unanimità che venne poi rispettata al momento del voto: la lapide del Palazzo Ducale a Venezia  parla di “Pel SI  voti 641.758”, “Pel NO voti 69”, “Nulli 273”,  numeri che  impongono almeno due considerazioni: i voti favorevoli sono attorno al 99,99 %: una percentuale che non fu ottenuta neppure dai regimi più feroci, da Stalin a Hitler.

La campagna intimidatoria

La seconda, gli abitanti che votarono effettivamente furono comunque meno di 650.000 su una popolazione di circa 2.500.000 abitanti, circa il 26 per cento: avevano diritto al voto solo i maschi con più di 21 anni.

Di sicuro il plebiscito venne “preceduto da una vera campagna di stampa intimidatoria dei fogli cittadini, preoccupatissimi per l’influenza che il clero manteneva nelle zone rurali dove, aveva scritto in settembre il “Giornale di Vicenza“, -i campagnoli furono lasciati nell’ignoranza o nell’apatia d’ogni civile concetto, educati all’indifferenza per ogni sorta di governo”.

Le minacce ai Parroci

Si scriveva ad esempio “ricordino essi (i Parroci e i Cooperatori dei ns. villaggi) che ove in alcuna parrocchia questo voto non fosse sì aperto, sì pieno quale lo esige l’onore delle Venezie e dell’Italia, sarebbe assai difficile non farne mallevadrice la suddetta influenza clericale, e contenere l’offeso sentimento nazionale dal prendere contro i preti di quelle parrocchie qualche pubblica e dolorosa soddisfazione.

Valdagno, solo il 30% va a votare

Questa politica intimidatoria tuttavia non ebbe grossi effetti sulla partecipazione popolare: “A Valdagno, ad esempio nonostante il plebiscito venisse decantato non come semplice formalità e cerimonia, ma una festa, una gara, solo circa il 30% sulla complessiva popolazione del Comune si recò a votare, mentre un buon 70%, per chissà quale motivo, preferì continuare ad occuparsi dei fatti propri, indifferente all’avvenimento.

Analogamente in tutti i distretti…..”

E’ la conferma del fatto che il cosiddetto risorgimento fu nel Veneto un momento al quale la stragrande maggioranza del nostro popolo partecipò con grande indifferenza, passiva .

Garibaldi si infuria perché i Veneti non si sollevano

E questo ce lo conferma lo storico Denis Mack Smith che scrive “Garibaldi si infuriò perchè i Veneti non si erano sollevati per conto proprio, neppure nelle campagne dove sarebbe stato facile farlo”.

Malo 1866, la “libertà” del voto

Sulla libertà del voto e sulla segretezza dello stesso ci illumina la lettura di “Malo 1866” di Silvio Eupani:

“Le autorità comunali avevano preparato e distribuito dei biglietti col si e col no di colore diverso; inoltre, ogni elettore, presentandosi ai componenti del seggio, pronunciava il proprio nome e consegnava il biglietto al presidente che lo depositava nell’urna”.

Elios Andreini e i Commissari Regi

Degno di nota anche quanto scrive Elios Andreini, già parlamentare del PDS, studioso di una provincia di frontiera, il Polesine:

“A quel punto entrarono in campo i Commissari Regi nel tentativo di garantire, a fronte delle cocenti disfatte in battaglia, almeno uno strepitoso successo con le urne.

L’Idea di un popolo di fedeli e tranquilli servitori di Casa d’Austria andava capovolta.  In elezioni regolari sarebbe stato arduo, quasi impossibile, e perciò si scelse un plebiscito-festa”.

Federico Bozzini e Cerea: urne separate per il Sì e per il No

E Federico Bozzini così descrive nel suo “L’arciprete e il cavaliere” quanto avvenne a Cerea:

“Come già si disse -continua il commissario- vi devono essere due urne separate, una sopra un tavolo, l’altra sopra l’altro. Se per caso non avesse urne apposite, potrà adoperare due misure di capacità pei grani, cioè una quarta od un quartarolo. Sopra una sarà scritto ben chiaro il SI, sopra l’altra il NO”. E più avanti:

“I protocolli sono due, – uno pei votanti che presentano il viglietto del SI, l’altro dei votanti che presentano il viglietto del NO, per modo che il numero complessivo dei viglietti che, finita la votazione, si troveranno in ciascheduna urna, dovrà corrispondere all’ultimo numero progressivo del protocollo.

Il protocollo dei votanti per il No

Nel protocollo pei viglietti del NO si dirà: votarono negativamente i seguenti cittadini. La piena pubblicità del voto rende inutile lo spoglio finale.” E alla fine:

“La commissione quindi conclude il presente Protocollo gridando: Viva l’Italia unita sotto lo scettro della Casa di Savoja“.

La Gazzetta di Verona: No, vuol dire restare veneto

Di particolare interesse, sempre sul volume del Bozzini, la citazione della Gazzetta di Verona del 17 ottobre 1866: “Si, vuol dire essere italiano ed adempire al voto dell’Italia. No, vuol dire restare veneto e contraddire al voto dell’Italia”.

Una sottolineatura di straordinaria importanza: già allora qualcuno aveva capito che una cosa erano i veneti e un’altra gli italiani e che gli interessi degli uni raramente coincidevano con gli interessi degli altri.

Napoleone manda i Veneziani in Italia

Cosa che del resto aveva ben capito Napoleone Bonaparte quando consigliava al figliastro di non ascoltare chi gli suggeriva di dare a Venezia un po’ più di autonomia, invitandolo, invece, a mandare “degli italiani a Venezia e dei Veneziani in Italia” (11).

L’ubriacatura nazional-tricolore ha però breve vita.

Polizia e gendarmi, spese quadruplicate

Ecco quanto scrive “Civiltà Cattolica nel volume XI, anno 1867:

“Non erano trascorsi sei mesi, dacchè le province venete erano state annesse al beatissimo regno d’Italia, e già i diarii, eziandio ministeriali, erano costretti a registrare le prove lampanti di due fatti che mettono in bellissima luce qual guadagno abbiano fatto que’ popoli a cangiar di padrone.

I fatti capitali erano questi: 1°. L’enorme dispendio che costava colà l’apparato di sicurezza quasi triplo di gendarmi e guardie, con la spesa quadrupla di numero di renitenti al servizio della guardia nazionale, da cui, massime nelle campagne, si rifuggiva con assai minor (recte: maggior) orrore che altra volta dall’essere incorporato nei reggimenti italiani dell’Austria.

Affinché si abbia un saggio del primo fatto, basta indicare che la sola Polizia di Verona, la quale costava al Governo austriaco non più di lire 22.945, ora, quando quel popolo non dovrebbe più aver bisogno di Polizia trovandosi felicemente sotto un Governo nazionale, ora costa non di meno di lire 84.400. Quasi il quadruplo!”.

Il “beatissimo regno d’Italia”, appunto…

L’Arena: sotto l’Italia triplicano i poliziotti

Dalla “Civiltà Cattolica” alla voce dei massoni di Verona, “L’Arena”, il dato non cambia, e qualcosa vorrà pur dire, anche per gli “ultras” risorgimentali…

“Fra le mille ragioni per cui noi aborrivamo l’austriaco regime, ci infastidiva sommamente la complicazione e il profluvio delle leggi e dei regolamenti, l’eccessivo numero di impiegati, e specialmente di guardie e di gendarmi, di poliziotti, di spie. Chi di noi avrebbe mai atteso che il governo italiano avesse tre volte tanto di regolamenti, tre volte tanto di personale d pubblica sicurezza, carabinieri, ecc. “. E’ l’Arena del 9 gennaio 1868, appena quindici mesi dopo l’arrivo dei liberatori italiani….

Federico Bozzini: Regno d’Italia alla bancarotta

Ma ritorniamo a Federico Bozzini, che non è un pericoloso indipendentista veneto, ma un illuminato sindacalista della CISL scomparso qualche anno fa:

“Il Regno d’Italia, che nel 1866 acquista il Veneto, si trova in una situazione finanziaria catastrofica. Tutte le annessioni risorgimentali aveano aggiunto al debito del conquistatore il debito del conquistato. Avevano così finito per “unire in un Tesoro comune, non le loro ricchezze,  ma le loro penurie”.

I governi provvisori avevano accumulato debiti ingenti con una politica finanziaria e di spesa pubblica spensierata. Avevano levato imposte, concessi favori, creata una moltitudine di impieghi per premiare i simpatizzanti politici. “Cosicchè alle amministrazioni si faceva coda, come ai teatri ne’ giorni di una prima rappresentazione ansiosamente aspettata. In questa maniera di spendere furono assai più famose, che non si sa comunemente, le due Amministrazioni garibaldine di Napoli e Sicilia”.

La moltitudine dei nuovi impieghi gonfia l’amministrazione immettendovi i benemeriti della rivoluzione, che divengono una folla. Così nel 1867 il debito pubblico raggiunge la cifra spaventosa di 6 miliardi e 404 milioni. Si devono pagare annualmente 320 milioni solo interessi. I suggerimenti che lo Stato italiano dichiari bancarotta “sono diventati ormai familiari e comuni. Siamo, agli occhi nostri e agli altrui, scesi a quel grado di riputazione, a cui è una signora avanti a cui i conoscenti si permettano oramai di ripetere, senza velo, ogni più sconcia cosa”.

Solo il Veneto ha bilancio in attivo

Nel 1866 l’Italia era entrata “nella guerra, in così miseranda e dissestata condizione di finanza e di tesoro, come nessun popolo, forse, che non sia in rivoluzione, s’è trovato mai”. La guerra, che è costata la bellezza di 357 milioni, si risolve in una clamorosa ed umiliante sconfitta. Tutti indistintamente gli Stati che nell’avventura “risorgimentale” erano stati conquistati avevano accollato al nuovo padrone i loro vecchi debiti.”

C’è un unico territorio che, quando viene annesso, ha il suo bravo bilancio in attivo: il Veneto. “Iddio che ama, com’ella sa, gli spensierati, ci dava la Venezia; il cui bilancio, presentando un’entrata di circa 79 milioni di lire ed un’uscita di circa 54 per la sua interna amministrazione ed il proprio debito, ci dava un avanzo di 25 milioni, che scemavano d’altrettanto il peso della spesa comune a tutta Italia” così l’autorevole Ruggiero Bonghi.

L’impeccabile amministrazione veneta

Questo risultato finanziario era dovuto all’ottima legislazione tributaria, all’amministrazione impeccabile, alla correttezza al di sopra di ogni sospetto dei funzionari pubblici del Veneto. Tutto questo patrimonio di saggezza, di tradizione, di esperienza e di civiltà viene radicalmente distrutto dall’estensione pura e semplice dell’amministrazione e della legislazione italiane. I dissesti che questa unificazione amministrativa e legislativa creano sono talmente evidenti che un amplissimo schieramento di forze venete, anche liberali progressiste e politicamente filoitaliane, insorge. Sarebbe un capitolo di storia tutto da studiare. Qui dobbiamo accontentarci dei rapidi accenni utili al nostro modesto racconto.

Le fameliche orde italiane

Uomini politici, pubblicisti, giuristi, commercianti, agrari, industriali sollevano la loro voce indignata contro la cieca distruzione di questo preziosissimo patrimonio civile. Non c’è istituzione, organismo, amministrazione che non venga toccata e sconvolta dall’arrivo delle normative e delle fameliche orde italiane.

Epurazione politica dei Veneti

“Le rivoluzioni, dice bene il Croce, non sono generose, ed hanno non solo molte passioni, ma anche molti appetiti da soddisfare”. E la greppia veneta fa gola a troppi. Ad esempio – ma è solo un esempio – una radicale epurazione politica colpisce gli alti gradi dell’università padovana.

Professori autorevoli e prestigiosi vengono allontanati dalla loro cattedra e sostituiti da mezze tacche che ostentano un improbabile passato cospirativo, e delle solide aderenze con le nuove autorità italiane. La politica è una scusa: “basta occupare, per correre il rischio di essere “dimessi”, un posto, che fosse agognato da qualcuno degli aderenti al Comitato segreto (…), quasi tutti massoni”. Tutti gli alti gradi dell’esercito e della burocrazia italiana sono occupati da piemontesi.

Impiegati italiani sostituiscono quelli veneti

“Questo favoritismo – protesta fierissimo un deputato veronese – pesò e pesa anche il Veneto, poiché dal dì della liberazione si ritrovò entro una nuvola d’impiegati italiani tra cui molti piemontesi, i quali col para grandine di esservi posti a guide per ben conoscere i nuovi sistemi, a poco a poco vi si vanno insediando stabilmente nelle cariche più cospicue, ed ai poveri veneti vi si lasciano gli antichi crostoli a rosicchiare. Crede il  governo che i veneti non abbiano gente capace di porsi a capo di qualunque amministrazione, lasciando loro il tempo di studiarne per pochi mesi così praticamente che teoricamente la nuova organizzazione?

(…) Si crede il Veneto una vallata Savoiarda di cretini? che la si ritenga la Beozia d’Italia?

Savoja nel Veneto, continuatori di Napoleone

I Savoja nel Veneto si propongono come i continuatori dell’infame rapinatore chiamato Napoleone….Pensiamoci bene, una pesantissima coscrizione militare obbligatoria (attraverso la quale si sottraggono alla nostra agricoltura migliaia e migliaia di possenti braccia), la riproposizione dell’odiosa tassa sul macinato, una vera e propria tassa sulla fame, proprio come quella imposta da Napoleone ai primi dell’ottocento, e poi tasse sul sale, sul caffè, sullo zucchero, sul petrolio, tasse giudiziarie e via discorrendo….

In Veneto manifestazioni di piazza anti-italiane

E così anche un popolo con un forte senso dello stato, civile e rispettoso come il nostro popolo veneto, si ribella e scende in piazza. E’ particolarmente interessante l’interpellanza presentata il 21 gennaio 1869 dall’on. Giuseppe Ferrari, illuminato federalista, che chiede lumi rispetto alle manifestazioni che hanno toccato la nostra regione: “Il Veneto, il pacifico Veneto (ilarità della Camera) non è esente dalle agitazioni. …Chiedo se sia tranquilla la campagna di Rovigo o quella di Oderzo o quella di Vicenza; e saranno ventitre località nominate nei giornali sulle quali si desiderano spiegazioni esatte”.

Domenico Pittarini, italiani peggio dei Turchi

Quali fossero i sentimenti nei confronti degli italiani nelle campagne venete lo racconta in maniera splendida Domenico Pittarini.

Poeta e commediografo, nato a Sandrigo (Vi) nel 1829, laureato in farmacia a Padova, membro del “Comitato liberale vicentino” e per questo arrestato dalle autorità austriache, si accorge presto di aver semplicemente cambiato padrone e di aver cambiato in peggio.

Nella “Politica dei villani”,  popolarissima commedia che per anni è stata tramandata oralmente dalla nostra gente, ecco come, attraverso le parole della contadina “Andola”, tratteggia i “liberatori” italiani:

“Ghe cago ai talgiani”, “ste sènache poche” (sènache, persone magre e patite), “i ne monde, i ne tosa, i n’inciòa, gnancora saemo un fiol de na scroa” (ci mungono, ci tosano, ci inchiodano come un figlio di una scrofa), “marsoni” (massoni), “dente salvadega che magna i cris-ciani, pì pedo dei Truchi e dei Luterani” (gente selvaggia che mangia i cristiani, peggio dei turchi e dei luterani).

Don Pietro Zenari: “Coss’ela sta Italia?”

Per non parlare di quanto scrive il contemporaneo Matio Zocaro, pseudonimo di Pietro Zenari, parroco di Caldiero (Vr) che in un’altra commedia fa dire al contadino Zelipo

“Coss’ela sta Italia, sta patria, compare

coss’ele ste cose che ghemo da amare?”

Polesine, la rabbia dei braccianti

Qualche anno dopo, nel Polesine e nel basso Veneto la rabbia dei braccianti  sfocia nelle violente proteste di piazza de “La Boje”, cioè “la pentola bolle, la situazione è matura, siamo stufi!”; è interessante osservare come questo fenomeno assume sicuramente connotazioni socialiste, ma anche anti-italiane: “Sotto i taliani el governo no comanda pì gnente, comanda i siori…”

La repressione italiana: migliaia di arresti

Nella brutale repressione i  “taliani” mandano nelle nostre piazze polizia, carabinieri e anche l’esercito: ci saranno migliaia di arresti, con relativi processi e condanne

Ecco quanto scrive il Prefetto di  Rovigo sui fatti di Castelguglielmo, comune fra l’Adige e il Po  che oggi non arriva alle 2.000 anime:

“Il movimento divenne imponente per numero, si concluse con 220 arresti. A Castelguglielmo i contadini marciarono anche contro i carabinieri: il contadino ha perduto ormai il rispetto pel padrone proprietario. I 220 arrestati condannati sortiranno dal carcere col fiele nell’animo perché essi e le loro famiglie non hanno guadagnato nella mietitura: il contadino legge pessimi giornali che predicano la guerra civile e seminano l’odio fra le classi sociali. Si sentono i contadini sortire con espressioni infami come questa: questo inverno giocheremo alle bocce colle teste dei signori”.

Una battuta piuttosto frequente all’epoca: ecco una variante ancora più…gustosa:

“Co le teste dei taliani zogaremo le borele (bocce)

e Vitorio Manuele metaremo par balin”.

Arriva l’Italia, i Veneti emigrano

Concludo. La conseguenza più importante dell’arrivo dei “liberatori” italiani fu…la partenza dei veneti: un’emigrazione biblica  investì il nostro popolo in seguito ad uno stato di miseria e di disperazione come mai nella nostra storia.

Interi paesi emigrarono alla ricerca della “Merica”, soprattutto nell’America Latina e in particolare nel Brasile meridionale, ricreando un altro Veneto al di là dell’Oceano (Nova Bassano, Nova Vicenza, Nova Padua ecc.), un Veneto che dopo diverse generazioni conserva tenacemente la propria cultura, le proprie tradizioni, la propria lingua.

Emigrazione veneta, la più alta di tutte

Emblematica la tabella che ripropongo, tratta dal volume di Ercole SoriL’emigrazione italiana dall’unità alla seconda guerra mondiale”, Il Mulino, 1979:ESPATRI MEDI ANNUI PER 1000 ABITANTI NELLE REGIONI ITALIANE

1876-1880

 

1881-1890 1891-1900
Veneto Fr. 11,98 Veneto Fr. 20,31 Veneto Fr. 33,85
Piemonte V.A 9,10 Basilicata 16,52 Basilicata 18,11
Basilicata 5,98 Piemonte V 9,94 Calabria 12,12
Liguria 5,03 Calabria 7,95 Abruzzi M. 10,69
Lombardia 4,98 Abruzzi M. 6,52 Campania 10,61
Toscana 3,27 Liguria 6,05 Piemonte V. 7,98
Campania 2,07 Lombardia 5,77 Toscana 5,86
Emilia R. 1,86 Campania 5,50 Emilia R. 5,59
Calabria 1,77 Toscana 4,79 Sicilia 5,05
Abruzzi M. 0,99 Emilia R. 3,00 Lombardia 5,03
Sicilia 0,34 Marche 2,00 Marche 4,77
Marche 0,32 Sicilia 1,66 Liguria 3,78
Puglie 0,29 Puglie 0,80 Puglie 1,85
Lazio 0,07 Sardegna 0,20 Lazio 1,36
Umbria 0,05 Umbria 0,15 Umbria 1,22
Sardegna 0,03 Lazio 0,02 Sardegna 0,86

 

La rabbia dei Veneti: Barbarani, “I va in Merica”

E la rabbia dei Veneti viene mirabilmente descritta in una splendida poesia del grande poeta veronese Berto Barbarani che descrive in maniera mirabile la drammatica situazione delle nostre campagne

 

I  VA  IN  MERICA

 

Fulminadi da un fraco de tempesta,

l’erba dei prè par ’na metà passìa,

brusà le vigne da la malatia

che no lassa i vilani mai de pèsta;

 

ipotecado tuto quel che resta,

col forrnento che val ’na carestia,

ogni paese el g ’a la so angonia

e le fameie un pelagroso a testa!

 

Crepà la vaca che dasea el formaio,

morta la dona a partorir’na fiola,

protestà le cambiale dal notaio,

 

una festa, seradi a l’ostaria,

co un gran pugno batù sora la tola:

“Porca Italia” i bastiema: “andemo via!”

 

E i se conta in fra tuti. – In quanti sio?

Apena diese, che pol far strapasso;

el resto done co i putini in brasso,

el resto, veci e puteleti a drio.

 

Ma a star qua, no se magna no, par dio,

bisognarà pur farlo sto gran passo,

se l’inverno el ne capita col giasso,

pori nualltri, el ghe ne fa un desìo!

 

Drento l’Otobre, carghi de fagoti,

dopo aver dito mal de tuti i siori,

dopo aver fusilà tri quatro goti;

 

co la testa sbarlota imbriagada,

i se da du struconi in tra de lori,

e tontonando i ciapa su la strada!

 

Ettore Beggiato

 

 

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