L’Alpago alla Madonna di Follina. Un secolare pellegrinaggio religioso che fu più volte proibito dal Vescovo per motivi di pubblica moralità. Pare incredibile, ma è proprio così. Questa è una piccola storia veneta di devozione e di voglia di vivere, di amor sacro e di amor profano, che merita di essere conosciuta.
L’Alpago è un luogo magico, abitato da montanari molto particolari. Una conca verde, un presepio costellato di 27 villaggi, aperta a Sud e circondata dalle montagne che digradano verso il Lago di Santa Croce.
La montagna veneta più vicina a Venezia
L’Alpago è la montagna veneta più vicina a Venezia. E per gli stretti rapporti commerciali e di lavoro che l’Alpago ha tenuto per secoli con la capitale della Serenissima – da qui partivano i tronchi del Cansiglio, Bosco di San Marco cioè foresta demaniale, diretti all’Arsenale di Venezia – le genti dell’Alpago hanno in genere una mentalità più aperta di altre popolazioni di montagna.
Anche il Pagot, il dialetto dell’Alpago, ha un suono più gentile, meno aspro e rustico delle altre parlate della montagna: risente in qualche modo della civile urbanità del veneziano. Perfino le vecchie case in Alpago portano, nelle loro tipiche e bellissime bifore, il segno inequivocabile della frequentazione veneziana di chi le ha costruite.
Non ho camminato, ma sono camminato
C’è un modo di dire, in Pagot, che racconta qualcosa di questi montanari che andavano su e giù da Venezia lungo il Piave, e che sapevano difendere in dottissime cause, davanti alle burocratiche Magistrature della Serenissima, il proprio diritto a pascolare le greggi nel Cansiglio, vietato perché Bosco di San Marco, riservato alla Repubblica per le superiori esigenze della flotta.
Se tu bussi a una casa e chiedi di una persona che è fuori, ti vien risposto che “l’è caminà“. Si dice “Son caminà”, col verbo essere. Perché il camminare, il muoversi, il viaggiare, il lavorare, non è un accessorio che si ha, non è qualcosa di esterno, ma di interno. Non è una cosa che si fa ma che si è. Fa parte dell’essere, è costitutivo della persona. Non ho camminato: sono camminato.
La Madonna “egizia” di Follina
Sarà per questo che alle genti dell’Alpago piacevano i pellegrinaggi. Ne facevano molti, e lunghi. Per secoli, prima che fossero istituite altre parrocchie, in tutta la valle c’era una sola parrocchia, la chiesa madre della Pieve d’Alpago. E tutte le domeniche, i valligiani si sobbarcavano un viaggio di decine di chilometri per andare a Messa. In processione poi andavano fino a Belluno, fino a Pian di Vedoia. E soprattutto, nelle festività della Pentecoste, andavano a Follina, l’antichissima abbazia dove si venera da immemorabile tempo la Madonna di Follina.
La Madonna di Follina è una statua della Vergine col bambino, probabilmente antica di millecinquecento anni, è un’opera che non ha eguali in Europa, e che secondo alcuni studiosi proviene addirittura dall’area egizia, dalla Nubia, da un antico impero del Nilo, una zona di cui tutti abbiamo sentito parlare perché è stata sommersa dalla diga di Assuan.
Il pellegrinaggio a Follina e la notte fuori
Ebbene, tra l’Alpago e Follina ci sono buoni 35 chilometri. E per secoli, in un giorno vicino alla Pentecoste, migliaia di alpagoti, provenienti da tutti i villaggi della valle, uomini donne e ragazzi, si mettevano in cammino per recarsi devotamente all’Abbazia di Follina.
Andando a piedi, naturalmente, ci impiegavano un giorno di viaggio. Dovevano dormire fuori la notte, e mica c’erano alberghi o strutture capaci di ospitare migliaia di persone, a Follina. La gente dell’Alpago dormiva presso famiglie, in stalle, in fienili, all’aperto se il tempo estivo lo permetteva.
La devozione e altri motivi
Erano tempi, si sa, nei quali i giovani non avevano possibilità di avere facili contatti con l’altro sesso, i fidanzati si potevano incontrare di rado, sempre alla presenza dei genitori, e moltissimi arrivavano al matrimonio senza essersi prima scambiati neppure un bacio.
Il pellegrinaggio a Follina e la necessità di dormire fuori la notte, dispersi nelle campagne intorno all’Abbazia, era dunque, probabilmente, per molti e per molte, un’occasione da non perdere anche per motivi assolutamente diversi dalla secolare devozione alla Madonna di Follina, che pure era molto sentita naturalmente.
Uomini e donne e i fienili non separati
Sta di fatto che la storia del pellegrinaggio delle genti d’Alpago a Follina è una storia di regolamentazioni vescovili, di proibizioni e di sospensioni, sempre combattute e superate dalla tenace volontà degli alpagoti di mantenere la devota tradizione della processione a Follina.
Fin dal Seicento ci sono relazioni di delegati vescovili i quali denunziano che taluni fedeli, invece di concentrarsi nella venerazione della Madonna, si dedicavano alla “adorazione del dio Bacco“. E inoltre, nella notte che si doveva trascorrere a Follina, uomini e donne non dormivano in “fienili separati“.
1711, sospensione della processione
La più antica sospensione della processione per questi motivi di “pubblica moralità” venne decretata dal Vescovo, nell’anno di grazia 1711, dopo la relazione di un cooperatore del parroco, il quale riferì che “poiché detta processione deve star una notte in detto luogo della Follina, per tal causa e per altre ancora, vi succedono scandali…“. E tali scandali consistono nel fatto “che la notte che dormono alla Follina si framischia l’uno con l’altro sesso indifferentemente…“.
La sospensione non resistette molto, perché già nella primavera successiva, l’Alpago inviò al Vescovo di Belluno due prestigiosi delegati, tal Zuanne De Pra da Plois (probabilmente antenato del mitico Enzo De Pra, il fondatore del ristorante pluristellato Dolada, in Plois d’Alpago) e Piero Bortoluzzi da Tignes, che ottennero l’autorizzazione a fare il pellegrinaggio, che nel 1712 si tenne quindi regolarmente.
Erano d’altronde gli anni della Repubblica Veneta, nella quale il potere ecclesiastico era di fatto sottoposto al potere civile. E la Serenissima in questi “scandali” era piuttosto tollerante: non si voleva certo scontentare le fedeli e preziose popolazioni dell’Alpago solo perché qualcuno si dava buon tempo nei fienili, una volta all’anno.
L’Ottocento e l’esclusione delle donne
Il problema si ripropose in maniera più decisa nel bigotto Ottocento. Ancor prima di essere “promosso” Vescovo di Belluno, un monsignore scriveva nel 1814 una lettera al “prefetto del Dipartimento del Piave” (si era sotto il centralizzato dominio francese, che purtroppo introdusse i prefetti) per chiedere che “sospesa fosse la la processione alla Beata Vergine di Follina“, poiché “qualche individuo si abbandona all’ubriachezza” e soprattutto perché “dovendo la popolazione pernottare fuori della propria comune e delle proprie case, v’era pericolo che nascesse qualche disordine e scandalo tra persone di diverso sesso“.
In subordine, il monsignore suggeriva che, se proprio non si volesse vietare la processione, almeno “siano escluse le donne e v’intervengano soltanto gli uomini“. E fu proprio questa la decisione che – caduto il regime napoleonico e passato il Veneto sotto lo scettro degli Asburgo – venne adottata l’anno dopo dall’Imperial Regia Prefettura, la quale autorizzò la processione dell’Alpago a Follina “sempre che siano escluse le donne di ogni età“.
Il diktat del Vescovo e la disobbedienza di massa
Ma la norma non veniva osservata puntualmente, tanto che nel 1862 il vescovo di Belluno proibì “le processioni che si fanno fuori dei confini della diocesi, per togliere così gli invalsi abusi e prevenire i futuri disordini“.
La gente dell’Alpago non subì il diktat, le persone – e anche le donne – partivano lo stesso, nonostante il divieto. Una disobbedienza di massa. Tanto che l’arciprete di Pieve, richiesto di una relazione sul fenomeno, scrive al Vescovo facendo notare la volontà popolare di mantenere “l’antichissimo voto” del pellegrinaggio, e proponendo di limitare la processione a pochi delegati, promettendo di “esortare caldamente gli altri a restarsene a casa” ma senza poter garantire “di venire ascoltato da tutti“.
La supplica del parroco di Pieve d’Alpago
Trascorsi tre anni, di fronte alle proteste della gente dell’Alpago, il parroco di Pieve d’Alpago supplicò il Vescovo di autorizzare nuovamente la processione. Il Vescovo rifiutò. E allora gli alpagoti si rivolsero direttamente all’Imperiale e Regio governo austriaco, il quale fece capire al Vescovo che non era quello il momento di scontentare le popolazioni: si era nel 1865, il dominio degli Asburgo nell’espressione geografica chiamata Italia vacillava, un anno dopo le province venete sarebbero state annesse al Regno dei Savoia col tristemente famoso plebiscito-truffa. E il Vescovo cedette, autorizzò la processione per tre anni, e promise di autorizzarla “in perpetuo” se non succederanno “sconci“.
Per evitare gli “sconci”, il parroco di Pieve d’Alpago (benché teoricamente le donne avessero ancora il divieto di partecipare al pellegrinaggio…) raccomandò ai fedeli che nella notte che si sarebbe trascorsa fuori casa, nei fienili di Follina, “le donne si ritirino in un locale sole, senza mescolanza con gli uomini“.
Mescolate agli uomini per gualchiere e fienili…
Raccomandazione che non dovette essere troppo osservata, se poco dopo il parroco di Farra d’Alpago suggeriva al Vescovo di dare “severa proibizione per le donne di recarsi al santuario della Beata Vergine di Follina“, poiché le donne dell’Alpago, “quantunque inibite, vi si recavano ogni anno in buon numero, alloggiando mescolate agli uomini qua e là per gualchiere e fienili, con molto pericolo della propria onestà“.
Non sappiamo come sia andata a finire, ma a risolvere la questione degli “scandali” e dell’allegra “mescolanza” tra donne e uomini nei fienili di Follina ci ha pensato ahimè il progresso, eliminando la necessità di trascorrere la notte fuori.
Il pellegrinaggio di oggi, in autobus
Il pellegrinaggio dell’Alpago alla Beata Vergine di Follina si fa tuttora. Ma da diversi anni si fa ormai in auto o in autobus, percorrendo a piedi solo l’ultimo tratto o neppure quello, e non v’è più necessità di dormir fuori la notte nei fienili, e poi oggi i fidanzati e gli amanti hanno licenza e occasioni di incontrarsi tutti i giorni e a tutte le ore. Sono qualche decina le persone che si recano oggi al comodo pellegrinaggio motorizzato, in luogo delle migliaia che se lo facevano a piedi nei secoli andati.
Per motivi che solo i misteri dell’animo umano possono spiegare, il calo della devozione e il calo degli “sconci” sono andati di pari passo, e chissà se la Madonna di Follina, che lo sapeva fin dall’inizio, non abbia allora guardato con occhio misericordioso anche a ciò che accadeva nei fienili.
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Nota: le informazioni, e le citazioni da documenti d’archivio, contenute in questo articolo, sono state tratte da due bellissime ricerche di storia locale. La prima è un volume di Licinio Lea, “L’Alpago in pellegrinaggio alla Madonna di Follina“, edito dall’Istituto Bellunese di Ricerche sociali e culturali nel 2002. La seconda è “Storia Pagòta“, di Gianclaudio Da Re, curato dalla figlia di lui, Elena Da Re, entrambi di Pieve d’Alpago. E’ questo un libro assolutamente eccezionale, frutto di una appassionata ricerca ultradecennale sugli archivi parrocchiali dell’Alpago dal 1500 alla prima guerra mondiale, che racconta la storia dell’Alpago con le vite vissute delle generazioni che si sono susseguite, ricostruendo alberi genealogici, matrimoni, battesimi e morti, gioie e sofferenze, malattie e prosperità.