Pietro Buratti è un grande poeta veneziano vissuto a cavallo del tramonto della Serenissima, tra il 1772 e il 1832. Indipendente, satirico contro il potere dei Francesi come contro quello degli Austriaci, amico personale di Stendhal.
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E’ sepolto a Venezia, a San Michiel in Isola, poco dopo l’imbarcadero, sulla sinistra. Mio padre non mancava mai, nei nostri pellegrinaggi al cimitero dei veneziani, di mettere una rosa sulla lapide che lo ricorda.
L’Elefanteide
Probabilmente la sua opera più famosa è l’Elefanteide, in cui Pietro Buratti racconta alla sua maniera un episodio veramente accaduto a Venezia.
Un elefante, sbarcato da una nave e sfuggito prima di essere rimesso in gabbia, va in giro per le calli della città, ammazza un giovane, e si rifugia infine nella Chiesa di Sant’Antonin, dove la lastra che copre una tomba si spezza sotto il peso dell’animale.
L’elefante ucciso in chiesa a cannonate
L’elefante, furente, incapace di uscirne, deve venir ucciso. Ma in chiesa non si può sparare. E allora i soldati austriaci aprono un buco nel muro della chiesa, in Salizada Sant’Antonin, posizionano una spingarda appena fuori del perimetro sacro, e abbattono l’elefante a cannonate.
La Lamentazione al prefetto di Venezia
Quella che vi presento qui, è l’incipit di una ironica Lamentazione al prefetto di Venezia, scritta da Pietro Buratti in lingua veneta nel 1813, dove il poeta descrive le miserevoli condizioni della Serenissima, la sua Patria “vendùa e rivendùa” da Napoleone, il “beco de rapina” che l’ha lasciata priva del corno dogale.
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La grafia è quella originale di Pietro Buratti, e merita una riflessione, che del resto si potrebbe e dovrebbe fare di fronte ai testi di qualsiasi autore di testi in lingua veneta, nel Settecento o prima.
Ochi e zenochi. E fregole
Buratti scrive tranquillamente “ochi” e “zenochi” non “oci” e “zenoci” anche se pronunciava “oci” e “zenoci” naturalmente, e così scrive sempre la elle anche se la pronuncia la “sorvola” quando è in posizione intervocalica.
Scrive “fregole” e scriverebbe “gondola“, lasciando al lettore veneto la libertà di pronunciare la elle piena, la elle a metà o saltarla pari pari, a seconda dell’area veneta cui appartiene.
Co le làgreme su i ochi
E col cuor tuto strazzà
Puzo in tera i mii zenochi
E domando a vu pietà.
Per la Patria la demando,
Che xé in fregole ridota,
Che va in coro sospirando
Che ghe manca la pagnota.
Per la Patria, che regina
Del so mar un dì xé stada,
Finch’un beco de rapina
Senza corno l’ha lassada.
De quel corno che valeva
Assae più d’una corona,
Che per tuto la rendeva
Rispetabile matrona.
Che dai ani incariolà,
benché re de tuti i corni,
Su l’altar de libertà
L’ha fenìo da poco i zorni.
Gran memorie, Consegiér,
Per chi ha visto sto paese
Sede un tempo del piasér,
Rovinà dal mal francese!
Per chi in mente gà la storia
De sto povero palùo
Dopo secoli del gloria
E vendùo, e rivendùo…
…
Da “Il fiore della lirica veneziana”, a cura di Manlio Dazzi, Neri Pozza Editore, Venezia 1959