Giace in Alpago una valletta amena, scriveva il grande don Umberto Trame, quasi cent’anni fa, nel suo tuttora fondamentale libro sulla Conca. E si riferiva a Caotes, una delle tante, tantissime piccole valli che sono la trama dell’Alpago. Perché la conca dell’Alpago è un grande cerchio glaciale: l’immenso ghiacciaio che premeva, ritirandosi, ha lasciato mille costoni e mille valli, come mille dita di una mano gigantesca, ciascuna percorsa e scavata nei millenni dal suo torrente.
Là dove il disegno delle valli alte si apre sulla piana che termina nel lago di Santa Croce, sulle pendici dell’ultimo colle, giace il paesino di Valzella. Si trova su una stradina che da Puos s’inerpica verso Torch, e poi su verso Pieve, la storica capitale dell’Alpago. Poche case, quelle di Valzella, tra cui quella dove abitò Rodolfo Sonego, il grande sceneggiatore veneto dei film di Alberto Sordi e di tanti film di commedia all’italiana.
La chiesa di San Piero di Valzella
Poche case e sul colle che le sovrasta, la collina di San Piero di Valzella, una chiesa. La chiesa di San Piero di Valzella, una delle più antiche dell’Alpago, citata come antica in documenti del XV secolo. Un luogo spirituale, solitario e magico, luogo di meditazione, giusto nel cuore della conca di Alpago.
Il Leone di Valzella
Una vecchia casa di Valzella dà sulla stretta stradina che è la via principale del paese, e inalbera un bel Leone di San Marco che per la conformazione della casa e la ristrettezza della stradina, chiusa dalla montagna anche dal lato opposto, si sporge quasi su chi cammini sulla via, tanto che alcuni, passandoci darente, rivolgono al Leone il saluto portando la mano destra alla fronte.
Vallicellam, l’ipotesi che non regge
Valzella, dice il cartello all’entrata del paese, frazione del comune di Alpago. Secondo ricerche eseguite alcuni decenni fa dall’Università di Padova, il toponimo Valzella deriverebbe da un supposto “Vallicellam” che sarebbe come dire “piccola valle”.
Supposto, vuol dire che il ricercatore non ha rintracciato alcun documento che riporti il toponimo Vallicellam riferito al paese, ma ipotizza comunque che il nome Valzella abbia che fare con “valle” e derivi quindi da un diminutivo latino la cui esistenza è soltanto ipotizzata: Vallicellam.
Il buon senso contadino, tuttavia, non accetta facilmente questa ipotesi. Chi mai, in un posto come l’Alpago dove ci sono mille e mille piccole valli, avrebbe usato il nome “Vallicellam“, piccola valle, per identificare un luogo e distinguerlo dagli altri? Sarebbe come chiamare “albero” un luogo nella foresta, come chiamare “acqua” un luogo nel mare.
Il paese si chiama Valdhela
Se invece di guardare al nome ufficiale del paese, quello riportato sulle carte e sulla segnaletica stradale, si fa parlare la gente del posto, le persone che si esprimono in pagot, il dialetto dell’Alpago, si scopre che il paese viene chiamato Valdela. Valdela, pronunciato Valdhela, con la tipica dh bellunese.
Valdhela, dunque. E Valdela scrivono pure documenti di più di cinque secoli fa, Valdela scrivono i censimenti della Serenissima. Valdela, un nome che con le valli probabilmente non c’entra un fico. Basta scendere a far la spesa a Puos, perché a Valzella negozi non ce ne sono. Ma appena scesi di poche decine di metri sotto Valzella, anzi Valdela, si incontra un torrente che – vedi caso – si chiama Valda.
Il torrente Valda
Valdela dunque, da Valda. E Valda, con ogni probabilità, non viene dal latino. Ma dal longobardo. Da parole longobarde come Wald, che significa “bosco di proprietà comune” o da svaldo, “campo bonificato dalla comunità e di uso collettivo”.
Longobardi in Alpago
In Alpago, d’altronde, la presenza longobarda è sicura: poco distante, c’è il paese di Farra d’Alpago, e fara era la sede del “governo locale”, dell’assemblea dei capifamiglia longobardi.
Valdela, dunque, e Valda, sono probabilmente testimonianza del periodo longobardo. Nulla a che fare con le piccole valli, nulla che fare col latino e con Roma. Non che ci sia qualcosa di male, ovviamente, nei toponimi derivati dal latino. Ma qualunque sia l’origine del nome del paese, questo non è Valzella. Ma Valdela. Anzi, Valdhela.
Il travestimento italiano
Ma se un paese in Alpago è denominato Valdela nei documenti storici, se ancora oggi il nome del paese nella parlata locale è Valdhela, perché lo si ribattezza Valzella? Perché non si rispetta quella bellissima, preziosa “dh” tipica del dialetto pagot e sconosciuta all’italiano, e si pretende di tradurla in una banale zeta? Perché si raddoppia la elle, che nei documenti storici e nella parlata locale è una elle singola? In conclusione, perché si cambia nome al paese, obbligandolo a omologarsi, a portare un “travestimento” italiano?
La gente del posto accetta questo insulto, perché è stata convinta, dalla scuola italiana, che la parlata locale sia una corruzione, una versione campagnola e ignorante dell’italiano. Che il dialetto pagot sia qualcosa di cui non andare fieri. E che quindi il vero, dignitoso nome del paese sia Valzella.
Il Troi del taffarel in Cansiglio
Non lontano da Valdhela, qui in Cansiglio, c’è una stradina meravigliosa che si snoda nella foresta. Tredici chilometri di pace, di silenzio, di profumi. Di raggi di sole che filtrano appena dai rami altissimi, di ombre e misteriose voci della natura, di presenze magiche. Da sempre, quel sentiero ha un nome che ne dice tutta la poesia: Troi del taffarel. Perché taffarèl vuol dire “folletto” e troi (si pronuncia con la “o” chiusa) è una parola di nobile ascendenza greca. Viene da una radice addirittura sanscrita, “drom”, che significa cammino, strada, percorso. Troi del Taffarel, il cammino del folletto. Si può pensare a un nome più bello?
Bene, da qualche tempo, lì in mezzo alla foresta del Cansiglio, hanno pensato bene di mettere un po’ di cartelli, così i turisti non si perdono nel grande bosco. Ma voi credete che il cartello rispetti il nome magnifico e vero del Troi del Taffarel? Ma nemmeno per sogno. Il cartello dice: Sentiero del folletto. Perché perbacco, siamo in Italia e si parla italiano!
Il comune di Carceri
Il nostro grande Ettore Beggiato, qui su Serenissima News (CLICCA QUI il link al suo articolo) ha segnalato il caso di un comune del Padovano che in lingua locale si chiama Le Calzare, probabilmente dai calzari dei frati, perché c’è un importante antico convento. Ma nossignore, il nome ufficiale è stato tradotto e tradito dal veneto all’italiano: e il nome ufficiale del paese è Carceri, che non è tanto simpatico.
Venezia, i nizioleti storpiati
Potrei citare innumerevoli esempi di calli veneziane dal nome storpiato, con le doppie che la lingua veneta quasi non conosce. Nizioleti che riportano Rio terrà, Callesella, Sottoportego, e via storpiando. Perfino i nomi ufficiali delle chiese di Venezia diventano italiani: se chiedete a un veneziano dove sia la chiesa di Sant’Eustachio segnata nelle carte, non capirà che volete andare a San Stae.
In Sardegna va peggio
In Sardegna, l’Isola de is Cavurus, che significa Isola dei granchi, con l’unità d’Italia diventa Isola dei Cavoli. Ma è andata peggio alla magica isoletta di Malu Entu (Cattivo Vento, in lingua sarda), che l’Italia sabauda ha ribattezzato addirittura Mal di Ventre.
I delitti toponomastici dell’Alto Adige
Non parliamo dei veri e propri delitti toponomastici commessi dal Fascismo in quel pezzo di Tirolo incamerato dall’Italia dopo la vittoria sull’Austria nella Grande Guerra. Il Sudtirol che diventa Alto Adige, i nomi locali tedeschi e ladini toscanizzati a forza, paesi, valli, fiumi, montagne: migliaia di toponimi inventati a tavolino, imposti dal regime di Mussolini, e mantenuti dall’Italia democratica, che avrebbe dovuto cancellarli con vergogna.
La sostituzione culturale
Negli altri Paesi europei, i nomi dei luoghi e dei paesi sono rimasti quelli storici. Lo stato nazionale che si è formato non ha sentito il bisogno di ribattezzare paesi e montagne, di sostituire con nomi nella lingua nazionale i toponimi locali. L’Italia, invece, ha operato scientificamente questa sostituzione culturale dovunque ha potuto, e soprattutto nelle zone di confine, o nelle regioni – come il Veneto o la Sardegna – in cui le spinte autonomiste sono forti.
La storia plurale negata
L’Italia doveva nascere federale, come voleva Daniele Manin e tanti altri, da Cattaneo a Gramsci. La conquista sabauda e l’unità favorita da un’élite massonica internazionale per abbattere lo Stato della Chiesa, per imporsi ha cancellato la storia plurale del Paese, ha imposto con la scuola una storia italiana scritta dai vincitori, come se non avessimo un passato prima di Garibaldi.
Come se la Serenissima fosse stata solo una repubblichetta marinara e non per secoli una grande potenza europea, uno degli Stati più ricchi e più influenti. Come se il Regno delle Due Sicilie fosse uno Stato arretrato e barbaro, e non invece un paese per molti aspetti più moderno e più civile di quello mal governato dai Savoia.
La lotta dell’Italia contro gli antichi Stati
La violenza alla toponomastica, la cancellazione di nomi preziosi e antichi, veri monumenti culturali, è solo un aspetto della lotta dell’Italia contro gli antichi Stati della penisola, contro le loro culture, le loro lingue, la loro storia, le loro identità.
L’Italia unita è nata contro gli antichi Stati della Penisola. Ha preteso, e pretende ancora, di cancellare il passato, ha cambiato nome ai paesi, alle montagne, perfino alle calli di Venezia. Ha italianizzato brutalmente toponimi antichi e nobili, talvolta li ha sostituiti con nomi di fantasia, nomi inventati. Ha cancellato la memoria, ha deriso il passato pre-unitario con il mito bugiardo dei popoli “calpesti e derisi”, che solo unendosi nell’Italia unita si sarebbero riscattati.
La grande Italia politicamente divisa
Il contrario della verità: perché è piuttosto l’Italia unita, di oggi e di ieri, ad essere derisa nel mondo. L’Italia ha costruito la propria grandezza e il proprio mito nel mondo, proprio nei secoli in cui la penisola era culturalmente unita ma politicamente divisa. Secoli in cui i popoli della penisola si sentivano fratelli ma erano liberi di governarsi da sè.
Venezia, Firenze, Napoli, Genova, erano Stati ricchi, potenti e rispettatissimi nel mondo. Ancor oggi, i milioni di turisti che sognano l’Italia non vengono certamente qui a vedere le imprese di Garibaldi e dei Savoia, ma il patrimonio senza eguali di civiltà materiale e immateriale costruito nei secoli di luce, di splendore e di grandezza che le Grandi Bugie del Risorgimento ci hanno insegnato a credere bui.
Riprendiamoci la nostra storia
Riprendiamoci la nostra storia. Riprendiamoci i nomi antichi. Rigettiamo le vie Garibaldi, le Napoleoniche, le piazze Mazzini e Cadorna e Cialdini, le vie Roma, i borghi Cavour e compagnia risorgimental cantando. Restituiamo Malu Entu alla Sardegna, restituiamo al Cansiglio il Troi del taffarel. Restituiamo alle cento Valzella del Veneto il nome che si meritano, il loro vero nome storico in lingua veneta, in lingua locale. In pagot. La loro vera identità. Valdela, sarà scritto sul cartello. E al foresto di passaggio, ci si premurerà di insegnare che si pronuncia Valdhela.