Il prossimo libro di Ettore Beggiato è il frutto di una lunga ricerca, tuttora in corso, sul tramonto della Serenissima. Tramonto, non caduta. Perché al tramonto succede la notte, e alla notte l’alba di un nuovo giorno, ed è questa la nostra speranza.
La ricerca di Beggiato, che si svolge nell’intero Stato Veneto, è una cronaca veneta del tramonto della Serenissima: documenta le vicende che portarono al tramonto della Serenissima Repubblica, evidenziando la strenua lotta che, nel nome di San Marco, caratterizzò tante comunità della Serenissima.
Ne esce una visione ben diversa dalla storiella della decadenza naturale, quasi una decadenza senile della vecchia Repubblica, alimentata prima da Napoleone e dai giacobini collaborazionisti, poi dall’Austria per giustificare la mancata restaurazione della Serenissima dopo l’ondata napoleonica, e infine dall’Italia.
Serenissima News pubblica qui, in anteprima, un capitolo del prossimo libro di Ettore Beggiato. Buona lettura!
“Basta che finissa sti cani!”
(Invettiva di una donna veneziana contro la Municipalità provvisoria)
L’amicizia di Napoleone
Napoleone Bonaparte, che aveva appena firmato il trattato di Leoben, invia alla Serenissima dal quartier generale di Brescia il 29 maggio 1796 la seguente dichiarazione di amicizia:
«Per liberare la più bella contrada di Europa dal giogo di ferro dell’orgogliosa casa d’Austria l’armata francese ha infranto gli ostacoli più difficili da sormontare. La vittoria, in accordo con la giustizia ha coronato i suoi sforzi. I resti dell’armata nemica si sono ritirati di là dal Mincio. L’armata francese passa sopra il territorio della Repubblica per inseguirla, ma essa non dimenticherà che una lunga amicizia unisce le due Repubbliche. La religione, il governo, gli usi, le proprietà saranno rispettate. I popoli siano senza inquietudine; la più severa disciplina sarà mantenuta. Tutto ciò che sarà fornito all’armata, sarà esattamente pagato in denaro. Il generale in capo impegna gli ufficiali della Repubblica, i magistrati e i preti a far conoscere i suoi sentimenti al popolo, affinché la confidenza cementi l’amicizia, che da lungo tempo unisce le due nazioni. Fedele nel cammino dell’onore come in quello della vittoria, il soldato francese non è terribile che per i nemici della sua libertà e del suo governo”.
Il decreto del doge Manin
Se non è un caso di schizofrenia conclamata poco ci manca: Napoleone passa in poche ore dalle lodi e dalla dichiarazioni di amicizia alle accuse più inverosimili e alle minacce più assurde; comunque dopo qualche mese il doge Lodovico Manin il 28 luglio 1796 ribadisce con un decreto lo stato di neutralità della Serenissima:
“Il Serenissimo Principe fa sapere che avendo la repubblica fin dal principio della corrente guerra chiaramente spiegate le proprie massime d’imparziale neutralità e della più perfetta amicizia e corrispondenza con ciascheduna delle belligeranti potenze”.
La neutralità disarmata
Con il senno di poi la politica della “neutralità disarmata” fu devastante per la Repubblica; bisogna anche dire che nei 1.100 anni di indipendenza la Serenissima aveva attraversato momenti particolarmente drammatici (penso alla guerra con la Lega di Cambrai) e forse a Venezia si ipotizzava che quella napoleonica fosse una delle tante burrasche passeggere;
Bisogna anche dire, però, che la città e la laguna non erano una facile preda e che quindi, con un po’ più di coraggio e di determinazione, si sarebbe potuto puntare sulla continuità della Repubblica almeno per quanto riguarda Venezia e la laguna, come in parte sosteneva Francesco Pesaro, già ambasciatore della Serenissima a Madrid, procuratore di San Marco de Citra, Savio del Consiglio che alla caduta della Repubblica si rifugiò a Vienna.
La politica della neutralità disarmata portò intanto i francesi ad occupare, in combutta con i giacobini locali, la terraferma veneta , complice l’assoluta inerzia, se non vera e propria codardia, degli uomini della Serenissima …”Non mancò il popolo al Governo, ma il Governo al popolo” come scrisse l’abate Modesto Bonato dall’Altopiano dei Sette Comuni (Vi).
Le minacce di Napoleone
Il 2 aprile 1797 dal quartier generale di Judenburg, in Stiria, Napoleone attraverso il generale Junot scrive minaccioso al doge Manin:
“Tutta la terraferma della Serenissima Repubblica di Venezia è in armi; in ogni parte il grido d’unione è: Morte ai francesi. Molte centinaia di Soldati dell’Armata d’Italia ne sono di già state la vittima. Voi disapprovate vanamente gl’attruppamenti che avete organizzati. Credete voi che nel momento ch’io sono nel cuore della Germania, sia impotente per far rispettare la prima nazione dell’universo, oppure credete voi che le Legioni d’Italia soffriranno li massacri che voi ordinate? Il sangue de’ nostri fratelli d’armi sarà vendicato, e non v’è battaglione Francese che geloso di sì nobile ministero, non senta raddoppiare il suo coraggio e triplicare i suoi mezzi. Il Senato di Venezia ha risposto colla più nera perfidia ai generosi riguardi che abbiamo avuti per lui. Io vi mando il mio Ajutante di Campo Capo di Brigata per consegnarvi la presente Lettera. La guerra, o la pace. Se voi non prendete sul momento i mezzi necessari per dissipare gl’attruppamenti, se voi non fate arrestare e consegnare nelle mie mani gl’autori degl’assassinj commessi, la guerra è dichiarata.”
Domenico Pizzamano, il racconto di Alvise Zorzi
Qualche giorno dopo, improvvisamente, c’è uno scontro diretto tra francesi e veneti; siamo al 20 aprile 1797 all’imbocco del Porto del Lido; ecco come lo racconta Alvise Zorzi nel suo “La Repubblica del Leone”:
“Un bastimento francese dal nome fatidico, Liberatore d’Italia (Liberateur d’Italie), agli ordini del capitano Laugier, aveva bloccato in mare aperto una barca di poveri pescatori chioggiotti, ne aveva catturato uno (un vecchietto di settant’anni di nome Menego Lombardo) e gli aveva ordinato di pilotare la nave dentro il porto di Venezia. Il malcapitato pescatore aveva ricordato al capitano che l’ingresso di navi armate era proibitissimo, da sempre, che il divieto era stato recentemente fatto valere anche contro la flotta russa dell’ammiraglio Orlov ed era stato tassativamente rinnovato da un recente decreto del Senato; ma Laugier non aveva voluto sentir ragioni, dichiarando che sarebbe entrato “per amore o per forza. Giunto il Liberatore d’Italia davanti al castello di Lido, il nobilomo Domenico Pizzamano, comandante della fortezza, gli aveva regolarmente comunicato il divieto di entrare. Laugier aveva respinto, con alterigia, l’intimazione, aveva continuato ad avanzare, e, mentre dal castello tuonava il cannone, l’equipaggio di una galeotta di bocchesi di Cattaro, urtata, forse per errore, dalla nave francese, l’aveva presa d’assalto e l’aveva saccheggiata. Laugier era rimasto ucciso (e bisogna proprio dire che la morte era andato a cercarsela”.
Napoleone: sarò un Attila per lo Stato Veneto
Il bilancio dello scontro fu di 5 francesi morti, 8 feriti e 39 fatti prigionieri; il ministro francese Lallement ne aveva fatto un caso capitale, Napoleone stesso andò su tutte le furie e quando il 25 aprile, giorno di San Marco, i due “Deputati a Bonaparte” Francesco Donà e Leonardo Giustinian lo raggiunsero a Graz si trovarono di fronte un pazzo scatenato che urlava come un ossesso «io non voglio più Inquisizione, non voglio Senato, sarò un Attila per lo Stato Veneto» e inoltre: «non voglio alleanze con Voi; non voglio Progetti, voglio dar io la Legge».
Le forze armate della Serenissima
Di fronte a tanta arroganza alla Serenissima non rimane che mobilitarsi per difendere almeno la città di Venezia; e Zuanne Zusto, Provveditore alle lagune, illustra il piano di difesa, elencando le forze mobili disponibili:
“Tre divisioni, ed un Corpo volante di Flottiglia, composte di 37 Legni tra Galere, Sciambecchi, Galeote e Feluche, e di altri 168 tra Barche, Cannoniere, Obusiere, Passi, Galleggianti, Bragozzi, e Pieghi, i quali Legni portano tutti una forza di 750 pezzi di Artiglieria, tra Colombine, Cannoni, Falconetti, Petriere e Obusiere, e un Corpo di 5215 Teste tra Truppe Oltremarina, Italiana, Artigliaria, e Marina, oltre ad sltre 2900 teste divise in varj appostamenti”, dà conto delle opere fisse (“si sono piantate su i pali in laguna sette Batterie stabili, che guardano l’argine di Campalto di Tessera; si sono armate di grosse batterie l’Isola di San Giorgio in Alga, di S. Secondo, e della Certosa, fortificato con due opere stabili il Porto di S. Erasmo, piantate delle Artiglierie sulla punta del Caraman, e ristaurato , ed armato il Forte degli Alberoni, non che quello di S. Pietro in Volta, e li Castelli del Lido, di S. Andrea, e di Chiozza (…), e si è costruito a Brondolo un Forte” e conclude sostenendo che occorre fare dei miglioramenti, quali “l’aumento di Batterie in laguna verso Campalto, dove non può essere attiva la Flottiglia a motivo de’ bassi fondi“, costruire nuove fortificazioni per difendere meglio Chioggia e “il lato di S. Erasmo, e Vignole opposto al Littoral del Cavallin“, armare meglio il litorale che da Chioggia porta al Lido.
Il Governo, presa visione del piano, nomina Nicolò Morosini IV quale luogotenente di Zusto perché si dedichi alla difesa interna, mentre il precedente luogotenente Condulmer può votarsi completamente a quella esterna.
Il piano di resistenza ad oltranza
Da questo piano si potrebbe leggere l’intenzione di una resistenza ad oltranza contro gli invasori francesi, la Serenissima sta varando “le misure necessarie perché quei demoni di francesi … non potessero prendere la città e perché ove avessero tentato di porvi piede, Venezia dovesse essere la sepoltura di tutti, nemine excepto” come scrive Ricciotti Bratti nel suo “La fine della Serenissima”. E invece, andò come tutti sappiamo …
Napoleone: atterrate i Leoni di San Marco
Il I° maggio i “Deputati a Bonaparte” Donà e Giustinian assieme al luogotenente di Udine, Alvise Mocenigo, incontrano nuovamente un furioso Napoleone che non a caso dichiara guerra alla Serenissima (allego nei “Documenti” il testo completo) e concludendo così la sua dichiarazione:
“Comanda ai diversi generali di divisione di trattar quai nemici le truppe venete, e di far atterrare in tutte le città della Terraferma il Leone di San Marco.”
Contemporaneamente, però, accorda un armistizio di cinque giorni e chiede alla delegazione veneziana di arrestare i responsabili dell’affondamento del Liberateur d’Italie e la dichiarazione del disarmo generale.
IL Doge Manin credeva di salvare la Repubblica
Il I° Maggio si riunisce il Maggior Consiglio e il doge Manin dopo aver fatto un resoconto degli ultimi avvenimenti, teorizza che è fondamentale salvare la Repubblica autorizzando i “deputati a Napoleone” a trattare per giungere a tutte le modifiche allo “status quo” necessarie per evitare la morte della Repubblica. Nei giorni successivi assistiamo a tutta una trattativa con i “deputati a Napoleone” costretti a rincorrere il criminale francese che cambia idea tre-quattro volte al giorno.
L’agonia della Repubblica dura una decina di giorni, nei quali si passa dall’ipotesi delle dimissioni del Doge, all’arresto del Pizzamano, alla liberazione dei detenuti politici, all’incertezza sull’atteggiamento da tenere nei confronti degli irrequieti schiavoni; intanto i francesi accerchiavano la città arrivando fino a Fusina e a Mestre e domenica 7 maggio cominciarono con le cannonate provocando il panico in città.
La soluzione dalmata
E così si arriva al 12 maggio 1797, al “tremendo zorno del dodese”: la Serenissima si consegna ai criminali francesi senza combattere e nell’ultima seduta del Maggior Consiglio si assiste all’abdicazione nei confronti della Municipalità Provvisoria; non vale la pena di perdere molto tempo su quell’ultima seduta del Maggior Consiglio, mancava anche il numero legale che era di seicento presenti per le decisioni fondamentali e invece ce n’erano solamente 537, con 512 che votarono si, 15 no e 2 astenuti (o meglio, “non sinceri” come si diceva all’epoca), caratterizzato da momenti tragicomici come quando il consesso si spaventò per quattro spari ipotizzando l’arrivo dei francesi, mentre invece erano l’ultimo saluto dei fedelissimi Schiavoni; la tradizione ci dice che Francesco Pesaro urlò al Doge Ludovico Manin: “Tolé su el corno e andé a Zara!” e la soluzione dalmata poteva rappresentare una via d’uscita che garantiva la continuità della Serenissima in attesa dei tempi migliori …
Alla fine del consesso i senatori andarono a casa alla chetichella, e quando il generale Salimbeni (che aveva la nomea di essere un giacobino) gridò “Viva la libertà”, la folla che nel frattempo si era radunata in piazza San Marco, rispose con un cupo silenzo, carico di tempesta.
L’assalto alle case dei giacobini
Il generale allora grido “Viva San Marco!” e la folla rispose “Viva la Repubblica!” improvvisamente uscirono le bandiere marciane e il grido “Viva San Marco!” continuò a riecheggiare; arsenalotti e schiavoni gridavano che non volevano né francesi né cambiamenti, la protesta che al mattino sembrava pacifica, nel pomeriggio divenne violenta con l’assalto alle case dei giacobini.
Ma sentiamo ancora come Alvise Zorzi descrive quelle ore concitate:
“La prima fu la casa del droghiere Zorzi, a san Zulian, proprio vicino alla Piazza: per ore e ore la folla continuò a vuotarla di tutto ciò che conteneva, fu lasciata completamente ripulita, senza più nemmeno le inferriate. La stessa sorte toccò alle case degli avvocati Gallino e Cromer e a quella di Andrea Spada; a San Stae fu svaligiato un deposito di formaggi, due librari sospetti di diffusione di manifesti settari, un sarto che aveva fornito indumenti all’armata francese, il provvisore Vivante che l’aveva rifornita di viveri, s’ebbero i negozi o i depositi depredati.
Devastato il palazzo dei Foscarini
Ne fece le spese più di tutti il magnifico palazzo dei Foscarini ai Carmini. Un Giacomo Foscarini, detto lo Zoppo, figlio del cavalier Bastian e nipote del provveditore Nicolò (un uomo strano, dissipato e litigioso), all’uscita della riunione del Maggior Consiglio si era svestito della toga patrizia e l’aveva calpestata con infami espressioni, mettendosi all’occhiello una coccarda con i colori francesi. Qualcuno se ne ricordò: il palazzo, tanto ammirato dal presidente de Brosses, dove erano stati ricevuti regalmente, in più occasioni, ospiti regali, fu devastato, i quadri tagliati, gli specchi fracassati, i mobili gettati dalle finestre , gli stipiti marmorei delle porte spaccati, spezzati perfino i mosaici “a terrazzo” dei pavimenti.”
Rialto, i cannoni sparano sulla folla
La situazione diventava di ora in ora più drammatica e così l’incaricato d’affari francese Villetard chiese di reprimere le proteste; Bernardino Renier che era stato nominato deputato all’Interna Custodia fece portare due cannoni sul ponte di Rialto e diede l’ordine di sparare sulla folla che, gridando “Viva San Marco!” si era radunata all’altezza di San Bortolomio: la versione ufficiale, giacobina, parla di sette morti e 15 feriti; G.P. Borsetto nel suo “Da la parte de San Marco” fa riferimento a un diario inedito del Museo Correr secondo il quale i morti sarebbero stati 17, il diario di Ludovico Manin parla di 10 morti; Borsetto scrive anche di 25 feriti e di 150 prigionieri.
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La resistenza popolare
Cristoforo Tentori riporta nella sua opera la posizione di Mallet Dupan pubblicata nel “Mercurio Britannico” n. XIII, in un articolo intitolato “Una falsità sopra Venezia e li Veneziani”:
“La riconoscenza Veneziana verso Buonaparte si dimostrò colla sollevazione della Terra Ferma, con la resistenza popolare di Venezia stessa all’Abdicazione del Governo, col saccheggio alle case delle persone destinate da Buonaparte a formare la Municipalità Provvisoria, con la lacerazione in pien meriggio di tutti gli Ordini affissi di questa Municipalità, e dei Francesi per quindici giorni consecutivi; e finalmente colle maggiori testimonianze di dolore, e di rabbia, e di disprezzo espresse dal Popolo in mezzo ai cannoni, ed alla forza de’ suoi stessi oppressori. Dal Gondoliere all’ultimo Operaio dell’Arsenale, dal Soldato Schiavone all’ultimo Sbirro, Contadini e Cittadini tutti convennero unanimemente nell’odio verso i Francesi, e verso la loro Rivoluzione” (Tentori C., Raccolta cronologica-ragionata di documenti inediti che formano la storia diplomatica della rivoluzione e caduta della Repubblica di Venezia, Firenze 1800, pag. 276).
L’ultimo proclama del Doge
Il doge fa un ultimo proclama con il quale informa la popolazione che il potere sarà gestito da “un Governo provisionale” e di evitare sommosse in vista dell’arrivo delle truppe francesi:
Per la felicità della Nazione
“Che avendo il Maggior Consiglio fondato la propria grandezza nella felicità della sua Nazione, e a quest’oggetto avendo costantemente diretto l’uso di quell’autorità della quale non si è considerato, che come depositario, ha potuto conoscere che il cambiamento de’ tempi e delle circostanze, non che l’esempio d’altre Nazioni esigevano, che non restassero più a lungo ristrette solo nell’ordine Patrizio quelle facoltà, che fin d’ora furono in lui concentrate.
A questo fine è divenuto il Maggior Consiglio medesimo alle deliberazioni primo, 4 e 12 corrente, in esecuzion delle quali sarà destinato un Governo provisionale.
Le truppe francesi per ordine pubblico
Inalterabili però restar dovendo anche in questo Governo la Santa Cattolica Religione ereditata dai nostri Maggiori, ferma la sicurezza degl’Individui, preservate e tutelate le proprietà, viene con il presente invitata questa diletta Popolazione alla dovuta obbedienza alle Leggi, ed a continuare nella moderazione e nella quiete, che l’hanno sempre distinta.
E siccome la ristrettezza dell’attual presidio Militare potrebbe eccitare i mali intenzionati a turbare il buon ordine, e la pubblica tranquillità, così ad allontanare questo pericolo sarà ammesso in alcuni siffatti luoghi della Capitale un determinato numero di Truppe francesi, le quali entrando amichevolmente dovranno essere corrisposte in modi ospitali ed amici.”
Il rifiuto di Lodovico Manin
Il 15 maggio dopo il tramonto, il doge Lodovico Manin lascia il Palazzo Ducale; i giacobini definiscono il loro governo alla testa del quale, dopo il rifiuto di Lodovico Manin, viene nominato il patrizio Niccolò Corner, le truppe francesi incominciano ad occupare la città.
Il 17 maggio i componenti della Municipalità prendono posto sugli scranni del Maggior Consiglio, e fra i discorsi va sottolineato quello del nobile feltrino Francesco Mengotti, che sarà poi stampato a spese della Municipalità e intitolato “Istruzione al popolo libero di Venezia” afferma che “Il Popolo Veneto fin dalla sua origine fu sempre attaccato alla libertà” e che “I Re hanno potuto dominare tutte le altre nazioni d’Europa, ma in Venezia non regnarono mai. Quindi fu sempre preferita dal Popolo Veneto una forma Repubblicana” e che soprattutto “Rivoluzione nella Repubblica non significa dunque la distruzion della Repubblica, né la sovversion della Religione, della giustizia, delle proprietà, dell’onore, della pubblica fede, ma significa anzi la riforma del governo divenuto col tempo difettoso, per renderlo più attivo, più vigoroso, più rispettabile”.
Non poteva certo immaginare il buon Mengotti, che l’infame di Napoleone avesse già svenduta la nostra Serenissima …
Primo, levare i Leoni
Il 29 maggio 1797 la Municipalità Provvisoria decreta:
Primo – Che tutti què Leoni, che considerati sono come stemmi, o indicazioni del passato Governo, sieno levati da tutti i luoghi ove esistono.
Secondo – Che il presente Decreto sia demandato al Comitato di Salute Pubblica per la sua esecuzione.
L’albero della “libertà” e i quattro minchioni
Il 4 giugno si innalza in piazza San Marco l’albero della libertà: la municipalità provvisoria sperava in una grande manifestazione popolare ma i veneziani si dimostrano decisamente freddini .. Un anonimo veneziano descrive così il momento:
Bareta senza testa
Albero senza vesta
Libertà che no resta
Quattro minchioni che fa festa
I toponimi “democratizzati”
Il giorno dopo si democratizzano i toponimi, tipico provvedimento di tutti i regimi totalitari; e così Campo S. Polo diventa Piazza della Rivoluzione, le Procuratie Vecchie diventano Galleria dell’Uguaglianza e quelle Nuove Galleria della Libertà, il Caffè Florian si chiamerà Caffè della Fratellanza, La Fenice diventerà Teatro Civico (Distefano G., Atlante storico di Venezia, Venezia 2007, pag.575).
Fuso il tesoro di San Marco
Il 15 luglio s’insedia il 5° presidente della Municipalità, Benini il quale esaurite tutte le fonti finanziarie possibili, si vede costretto a firmare l’utilizzo degli oggetti preziosi di proprietà del governo, da trasformare in moneta contante: ori e argenti delle varie chiese di Venezia, e parte del tesoro di San Marco prendono così la via della zecca per essere fusi.
Il decreto contro gli oppositori
Il 24 luglio viene affisso per la città un indecente manifesto che riproduco interamente:
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Decreto della Municipalità Provvisoria contro gli oppositori
24 luglio 1797
LIBERTA’ – EGUAGLIANZA
RAPPORTO DEL COMITATO DI SALUTE PUBBLICA
Relatore Giuliani
I pericoli della Patria: gli stemmi di San Marco
Cittadini! I pericoli della Patria vanno crescendo ogni giorno. L’audacia de’ malevoli alza imprudentemente ed impunemente la fronte. Le divise nazionali sono oltraggiate, il governo disprezzato, gli stessi rappresentanti del Popolo motteggiati, avviliti. Mille e mille carte incendiarie predicano l’insubordinazione alle autorità costituite. Gli stemmi di San Marco si veggono malignamente affissi in tutti gli angoli della città. Le grida d’insurrezione viva San Marco allarmano i buoni cittadini. Il male è giunto al colmo: richiede estremi rimedi. Noi saremmo risponsabili verso il Popolo, se non prendessimo le misure che prevengano una controrivoluzione.
La salvezza pubblica c’induce a presentarvi il seguente decreto.
Viva San Marco, pena di morte
- Chiunque griderà viva San Marco, segnale dell’orribile insurrezione del giorno 12 maggio, sarà punito di pena di morte.
- E’ proibito ogni attruppamento. Quello o quelli che ecciteranno attruppamenti pubblica sicurezza e puniti di pena di morte.
- Chiunque cercherà con discorsi di eccitare l’insubordinazione alle autorità del governo, sarà punito di pena di morte.
- Chiunque affiggerà o diffonderà carte incendiarie o stemmi di S. Marco e sarà autore e promotore di tali segni d’insurrezione, sarà punito di pena di morte.
- Gli autori e gli stampatori di opere o fogli che eccitassero l’insubordinazione alle autorità del governo, saranno puniti di pena di morte.
- Gli osti, i locandieri, i caffettieri, i custodi de’ casini ed altre adunanze e i loro subalterni che non porteranno al Comitato di Salute Pubblica la riferta di chiunque tenesse discorsi che eccitassero l’insubordinazione alle autorità del governo, saranno soggetti alla carcerazione di cinque anni.
- Sarà formata questa notte una commissione criminale composta di cinque cittadini colla facoltà di procedere militarmente contro i colpevoli dei delitti indicati negli articoli precedenti.
- Il presente decreto sarà stampato straordinariamente questa notte e pubblicato in tutti i sestieri a suon di tamburo.
Gallini, Giuliani, Sordina, Dandolo, Fontana, Benini, Signoretti (del Comitato).
Butturini Comm.rio Generale
Approvato per appello nominale con tutti i voti della Municipalità radunata straordinariamente alla mezza notte precedente il giorno 6 calorifero, 24 luglio.
Benini Presidente, Armani Secretario.
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Pena di morte per chiunque griderà viva San Marco, nella città di San Marco! A tanto arrivano quei criminali dei giacobini veneziani !
La cessione all’Austria
Il 17 ottobre Napoleone con il trattato di Campoformio assesta il colpo definito alla Serenissima: vengono assegnati all’Austria i territori della Repubblica Veneta ad eccezione di Corfù e delle isole jonie che rimangono francesi;dopo 1.100 anni tramonta la Serenissima, io preferisco sempre parlare di tramonto, perché per quanto lunga sia la notte, prima o poi arriva l’alba … Viva San Marco !
Ettore Beggiato